È una fredda giornata di fine dicembre. I raggi del sole fanno timidamente capolino tra i grandi nuvoloni grigi che nascondono quasi per intero l’azzurro del cielo. L’aria è intrisa del profumo del mare e dell’erba bagnata.
“Peccato!”, penso. Mi sarebbe piaciuto venire qui in una giornata di sole, ma il grigiore gelido dei pomeriggi d’inverno rende ancor più suggestiva la vista del paesaggio che mi si para davanti agli occhi.
Sono a San Giovanni di Sinis, nell’omonima penisola che si trova al centro della costa occidentale della Sardegna: un braccio di terra lungo e stretto proteso verso il mare e circondato su tutti i lati dall’acqua, un posto unico per la perfetta commistione tra natura (stagni, paludi, lagune) e storia che da epoche immemori lo caratterizza.
Mentre percorro il sentiero che conduce verso la punta estrema della penisola, dominata dalla torre spagnola di San Giovanni – costruita nel Seicento per proteggere le popolazioni locali dalle incursioni dei pirati –, mi rendo conto, guardandomi attorno, che un sito del genere non poteva che essere in passato terra di approdi e di partenze. C’è stato un tempo in cui i popoli venuti dal mare erano visti non con timore e diffidenza, ma accolti con reverenza dalle genti locali, consapevoli che da quell’incontro-scontro sarebbero scaturite occasioni di crescita, ricchezza, trasformazione, benessere.
La varietà storico-archeologica e culturale della Sardegna, e di questa propaggine di terra in particolare, è il risultato del passaggio stratificatosi nella terra di Fenici, Punici, Romani, Vandali, Bizantini. Ciascuno di questi popoli ha lasciato, a memoria della propria venuta, una traccia più o meno evidente e rilevante che oggi, assieme alle altre, compone lo straordinario mosaico monumentale dell’area archeologica di Tharros: la vera ragione per cui sono qui.
Prima di visitare il sito, salgo in cima alla torre. Voglio abbracciare con lo sguardo il paesaggio tutto attorno e ammirare dall’alto le rovine della città a picco sul mare. Vivere qui, secoli orsono, doveva essere davvero fantastico!
Furono i Fenici, giunti dall’odierno Libano, a fondare il primo nucleo dell’abitato di Tharros alla fine dell’VIII secolo a.C., in un’area in parte già occupata da un villaggio nuragico dell’Età del Bronzo. Probabilmente, questo primo insediamento non era molto esteso né particolarmente significativo dal punto di vista architettonico. Il contesto senza dubbio più rilevante era il cosiddetto tofet, un’area sacra a cielo aperto, circondata da un recinto, dove non è ben chiaro se venissero immolati fanciulli in tenera età come offerte alle divinità o, molto più probabilmente, seppelliti, assieme alle ossa di animali, i corpi di quei bambini morti prematuramente, ben prima di essere stati accolti nella comunità degli adulti. All’interno di questo recinto sacro, gli archeologi hanno ritrovato migliaia di urne in terracotta con all’interno resti di ossa di neonati tra 0 e 6 mesi e stele o piccoli monumenti in pietra con la raffigurazione dei simboli e delle divinità della religione fenicia.
Ai Fenici seguirono i Punici, arrivati dalle vicine coste del Nord Africa; grazie ad essi l’abitato conobbe un processo di monumentalizzazione in linea con la politica espansionistica che, tra VI e III secolo a.C., Cartagine perseguì in tutto il Mediterraneo. Venne costruita un’imponente cinta muraria, diversi edifici sacri – come il grande tempio con basamento scavato direttamente nella roccia arenaria e ancora visibile al centro della città –, botteghe per la lavorazione del ferro ed altre strutture in buona parte ancora nascoste dalle stratificazioni successive.
I morti venivano seppelliti – nelle stesse aree adibite a necropoli in età fenicia su Capo San Marco e là dove oggi sorge il villaggio moderno di San Giovanni – in tombe a camera assieme a ricchi corredi funerari composti da gioielli, amuleti, ceramiche, ecc., oggetti esposti nei musei sardi, italiani ma anche stranieri.
Nel 238 a.C. ebbe inizio una nuova era con la conquista ad opera dei Romani e Tharros cambiò progressivamente pelle, assumendo, soprattutto in età imperiale, quella conformazione architettonica che la rende simile ad altre città romane. Gli spazi urbani furono organizzati in maniera ortogonale, le strade vennero pavimentante con lastre di basalto ancora oggi perfettamente conservate, furono edificati tre impianti termali e templi come quello forse dedicato alla triade capitolina (Giove, Giunone e Minerva), le cui due colonne, erette in direzione del mare, sono il simbolo forse meglio conosciuto del sito archeologico.
Gli abitanti della città vivevano in grandi condomini chiamati insulae (non sono state, invece, ritrovate domus come a Pompei) e per rifornire di acqua l’intera popolazione venne realizzato un sofisticato sistema di distribuzione idrica e di smaltimento delle acque bianche che trovava il suo punto nevralgico nel grande castellum aquae, connesso ai resti del vecchio acquedotto, posto nel punto di intersezione tra due arterie stradali, nel cuore della città antica.
Lo splendore e l’opulenza di quei tempi lontani ben si percepiscono percorrendo i sentieri che si snodano tra le rovine, all’interno dell’area archeologica. In qualsiasi direzione si diriga lo sguardo è la vista del mare che lambisce il promontorio a lasciare, più di ogni altra cosa, senza fiato e ad ispirare un genuino senso di invidia per coloro che qui hanno vissuto. Secoli fa, gli abitanti di Tharros che frequentavano le terme, uscivano di casa per le quotidiane commissioni, si dirigevano al tempio o alle fontane pubbliche per prendere l’acqua, vedevano esattamente quello che vedo io adesso, forse un paesaggio di gran lunga più incontaminato e selvaggio. Ma essi non erano visitatori di passaggio come lo sono io in questo momento, ma i custodi e le anime di questo posto magico.
Uomini, donne e bambini hanno abitato a lungo questo spazio di terra incastonato in mezzo al mare e sapere che questa concentrazione di vita e di storie umane, di idee e di culture è, in buona parte, ancora custodita sotto i miei piedi procura un senso di vertigine, un’emozione fortissima difficile da spiegare a parole.
Dopo l’età dell’oro, venne quella dell’oblio e di un progressivo abbandono. Molte furono le devastazioni perpetrate dai Vandali, nonostante nel frattempo Tharros fosse divenuta sede episcopale e tale rimase fino alla sua completa decadenza nell’XI secolo, un lungo silenzio interrotto solo verso la metà dell’Ottocento con l’avvio delle prime indagini archeologiche.
Se c’è una cosa che più di ogni altra continua, a distanza di anni, ad affascinarmi dell’archeologia è questa sua capacità di ridare voce e dignità a vite, volti, luoghi, edifici, storie dimenticati, ma soprattutto la possibilità di offrire a ciascuno un’esperienza di viaggio a ritroso nel tempo che non è fine a sé stessa, ma è strumento fondamentale per decodificare il presente.
Bisognerebbe visitare avamposti storici come Tharros per convincersi del fatto che le frontiere non esistono e che a spezzarle è il mare che connette popoli e culture, che divide e allo stesso tempo unisce, nella misura in cui si fa strada da attraversare per incontrare ciò che sta dall’altra parte.
Bisognerebbe portarci i bambini e le bambine, per far capire loro che secoli orsono se i migranti odierni fossero approdati sulle coste battute dal maestrale del Sinis sarebbero stati accolti, ascoltati, soccorsi e che mescolandosi con la gente del posto avrebbero generato nuove identità, culture, visioni e prospettive.
Iniziamo così, con il ricordo di un viaggio e la condivisione delle riflessioni che ci ha ispirato, un nuovo anno per il nostro blog, sempre con un occhio rivolto al passato ed uno che traguarda il futuro attraverso la lente del presente.
Buon 2019!
Mi chiamo Giovanna e vivo in Puglia. Ho sempre avuto le idee molto chiare: a 8 anni sapevo già che avrei fatto l’archeologa. Per anni mi sono divisa tra gli scavi e montagne di mattoni, tegole e coppi. Chissà, forse sono fatta un po’ di argilla…
Poi, ho capito che dovevo raccontare l’archeologia ai bambini e dare un senso, una prospettiva al mio lavoro. E allora ho scoperto una cosa fondamentale: le storie sono l’unica cosa che ci lega al passato e al futuro e che nessuno potrà mai portarci via.
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