Roma, Circo Massimo, 31 maggio 2015. Mattia corre felice dietro ad un pallone. Suo padre di fronte a lui para i rigori; a volte finge di mancare una pallonata, altre, con una mimica da vero calciatore, si lancia a terra per afferrarla, simulando la difficoltà della presa.
È divertente vedere le facce di suo figlio: gli occhi al cielo, le mani nei capelli, l’esultanza della vittoria e la sofferenza della sconfitta. Sembra stia recitando, in realtà sta solo prendendo molto seriamente il gioco. Poi, all’improvviso, un calcio più forte del previsto scaglia la palla ben oltre le spalle di Mattia, laggiù fin quasi alla curva dell’arena. Padre e figlio si lanciano all’inseguimento del pallone, che rimbalza lontano fino al bordo di una palizzata. Mattia è il primo di arrivare; afferra il pallone stringendoselo al petto e quando solleva lo sguardo, si ferma ad osservare oltre la recinzione. Ci sono pietre di tutti i tipi, cumuli di terra, assi di legno, un grande telo nero.
“Eccomi! Che corsa… Ho il fiatone. Cosa guardi?”
“Guarda papà! Cosa sono tutte queste pietre?”
“L’altro giorno ho letto sul giornale che gli archeologi, scavando in questa zona, hanno trovato un arco”.
“Un arco? E a cosa serviva?”
“Era un grande arco con tre aperture fatto costruire da un imperatore romano: Tito. Sotto ci passavano gli eserciti vittoriosi dopo aver sfilato nel Circo. Gli archeologi sapevano che si trovava in questa zona ma finora non avevano trovato nessuna traccia”.
“Ed ora cosa faranno? Continueranno a scavare?”
“Purtroppo no. Ho letto che al momento lo seppelliranno di nuovo sotto terra. Non ci sono soldi per continuare lo scavo”.
“Ma non è giusto! Sotto terra nessuno lo può vedere! La maestra ci ha detto che gli archeologi scavano per farci conoscere la storia dei reperti sepolti. Ma se smettono di scavare e i reperti restano nascosti, nessuno potrà raccontarci queste storie”.
“Hai ragione Mattia: il mondo di noi adulti è complicato. Dovremmo essere contenti quando un pezzo del passato viene alla luce ed invece ci preoccupiamo di sotterralo al più presto, perché non sappiamo che farne e non siamo in grado di proteggerlo a dovere. Vieni, andiamo. Torniamo a giocare”.
Ma Mattia non si muove da lì. Il suo viso si fa serio ed imbronciato e questa volta non sta imitando nessun giocatore. Vorrebbe poter fare qualcosa. Ma cosa visto che lui è solo un bambino?
L’Arco di Tito, costruito nell’anno della morte dell’imperatore, nell’81 d.C., per celebrare la sua vittoria sui Giudei e la distruzione di Gerusalemme, pare fosse alto più di 17 metri e sormontato sull’attico da una quadriga bronzea.
Il colpo d’occhio, per chi arrivava al Circo Massimo dal lato di Porta Capena, sulla via Appia, doveva essere impressionante e chissà quanti generali vittoriosi ci saranno passati sotto dopo aver sfilato, osannati dalla folla in festa, per tutta l’arena. Emozione da star!
Dell’arco si erano perse le tracce e nulla finora, che si potesse ricollegare al monumento, era emerso durante le indagini da anni in corso per riportare alla luce un’ala degli spalti e le platee del circo. Poi, qualche settimana fa, la scoperta, come spesso accade apostrofata come unica ed eccezionale dai giornali e in televisione: gli archeologi della Soprintendenza romana ritrovano, al di sotto della falda acquifera, resti in marmo della trabeazione dell’arco e i plinti di alcune colonne. La sorpresa e l’entusiasmo per il ritrovamento che simili notizie destano in quei pochi come me, convinti che le vere città moderne solo quelle che sanno riscoprire e accogliere nei propri spazi il passato che rispunta, durano assai poco. Non ci sono soldi per proseguire lo scavo e ricostruire l’arco, dunque meglio riseppellire tutto e chissà, sperare che un giorno… quando? tra 10, 50, 100 e più anni, la città di Roma sia pronta a fare i conti con il suo passato e a riappropriarsene, abbia maggiori finanziamenti certo, ma soprattutto la lungimiranza di capire che investire in un progetto di scavo, ricerca, musealizzazione, valorizzazione vuol dire investire nella sviluppo umano e culturale dei propri cittadini, riconnettere il presente al passato e a partire da questo ponte ideale immaginare un futuro.
Di questi tempi, se proprio si deve fare una scelta, molto meglio non scavare. A cosa serve se poi, una volta riemersi, molti siti archeologici sono esposti all’incuria e al degrado e nessuno è in grado (o ha l’intelligenza per farlo) di raccontarne la storia in modi e forme che possano destare interesse e sollecitare una comune azione di difesa? Non so se a voi capita, ma a volte quando cammino per le strade della mia città o nelle campagne e paesi attorno ad essa o per le vie delle maggiori città italiane penso a cosa c’è di inesplorato sotto i miei piedi e una vertigine mi coglie: quel fascino irresistibile che il passato ha il potere di esercitare su alcuni.
Eppure, quasi mi conforta sapere che quanto ancora non si conosce è sigillato sotto una strada o un uliveto, il pavimento di una chiesa o la superficie del mare. Terre e mari gravidi da millenni, che portano dentro di sé delle straordinarie creature che forse non nasceranno mai, ma traboccanti di storia e bellezza, quella storia e quella bellezza che non sappiamo difendere e adeguatamente apprezzare. E così il reinterro, nei casi in cui ci si accorga di
avere a che fare con un sito troppo fragile per poter essere riabilitato alla vita senza troppe complicazioni ed eccessivi oneri economici, diventa pratica diffusa e consigliabile, pur sempre discutibile perché una società che volutamente
trascura quello che è stata, non è evidentemente capace di proiettarsi nello spazio e nel tempo. Ma si tratta pur sempre di una scelta reversibile, che ha, metaforicamente parlando, il pregio di evitare il rischio di un parto
prematuro.
Un futuro migliore è ad esempio auspicabile per il villaggio preistorico di Nola, la “Pompei dell’Età del Bronzo”, come alcuni l’hanno definita. Un villaggio di 4000 anni fa, conservato perfettamente intatto da un’eruzione del Vesuvio del 1800 a.C. circa e scoperto dagli archeologi nel 2000. L’estate scorsa il sito è stato reinterrato; troppo alti i costi per predisporre un impianto idraulico che svuoti l’area dell’acqua di falda che l’ha sommerso nel 2009 assieme al vicino anfiteatro. Ed allora uno dei cittadini di Nola, sconfortato, si chiede come sia possibile che i Romani siano stati in grado di svuotare un lago per costruire un anfiteatro e 2000 anni dopo non si riesca ad impedire che l’acqua allaghi le strutture antiche.
A Capo Colonna, in Calabria, hanno fatto molto di peggio: non hanno semplicemente riseppellito il passato, lo hanno obliterato per sempre. Un’enorme gettata di cemento, di fronte alla Chiesa di Capo Colonna, ha cancellato in modo irreversibile, a meno che non si decida di rimuovere tutto a colpi di martello pneumatico, i resti dell’antico foro, in un’area archeologica di straordinario valore laddove sorgeva il santuario di Hera Lacinia, uno dei più importanti della Magna Grecia. E così, un intervento di sistemazione del piazzale antistante la chiesa, si è trasformato in un scellerato atto di distruzione della memoria storica di un territorio, tanto più ingiustificabile perché permesso dalle autorità.
I casi di reinterro sono tanti ed uno diverso dall’altro. Ma dietro ognuno di essi ci sono le stesse motivazioni: mancanza di fondi sufficienti per il recupero, lo studio e la valorizzazione dei resti antichi e soprattutto l’incapacità di progettare uno sviluppo sostenibile delle città moderne che non faccia del passato un imbarazzante accessorio di cui disfarsi o da camuffare il meglio possibile (al di sotto di vetrate nel migliore dei casi o negli scantinati di qualche edificio), ma un elemento centrale del paesaggio urbano, il segno particolare e distintivo della carta d’identità dei territori. E per fare questo non occorrono solo finanziamenti, ma la capacità forse di saper guardare oltre e lontano, di indirizzare lo sguardo lungo quella linea retta che collega il passato al futuro.
Mattia è entusiasta. Si muove da una parte all’altra dell’aula, mentre i suoi compagni di classe, divisi in gruppi, altrettanto eccitati armeggiano con fogli, matite colorate e ritagli di giornale.
A Mattia la storia dell’arco di Tito sotterrato perché non ci sono soldi per continuare lo scavo, non è andata proprio giù. E adesso chi si preoccuperà di raccontarne la storia? Pensa e ripensa un’idea gli è venuta, una grande idea! Ha chiesto alla sua insegnante di storia di aiutarlo a ricostruire la storia dell’arco dalla fondazione ad oggi e poi ha coinvolto i suoi amici in un’impresa straordinaria: trasformare quella storia in un lungo striscione con disegni e fumetti. Quando sarà finito, assieme alla maestra e ad alcuni genitori, tra cui suo padre,andranno dal sindaco, glielo faranno vedere e gli chiederanno di trovare il modo di sistemarlo proprio lì dove sono stati trovati i resti dell’arco. E così, fino a quando lo scavo non sarà ripreso, almeno altri bambini come lui potranno conoscere la storia dell’imperatore Tito e del suo arco onorario.
Mi chiamo Giovanna e vivo in Puglia. Ho sempre avuto le idee molto chiare: a 8 anni sapevo già che avrei fatto l’archeologa. Per anni mi sono divisa tra gli scavi e montagne di mattoni, tegole e coppi. Chissà, forse sono fatta un po’ di argilla…
Poi, ho capito che dovevo raccontare l’archeologia ai bambini e dare un senso, una prospettiva al mio lavoro. E allora ho scoperto una cosa fondamentale: le storie sono l’unica cosa che ci lega al passato e al futuro e che nessuno potrà mai portarci via.
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