I post del lunedì

Ricordi, archeologia e un pizzico di fortuna: la scoperta del mosaico di Vignale.

Quando fai l’archeologo conosci bene la sindrome della gabbia.

Tu stai dentro la recinzione e lavori mentre fuori le persone si fermano e ti guardano incuriosite; a volte parlano tra di loro e capita di captare qualche mezza frase:

“Mamma ma che fanno?”

“Eh.. scavano, cercano cose antiche.”

“Ma non hanno caldo?”

Gli scavi devono essere recintati, ma a volte, a starci dentro, ci si sente come in gabbia.

Oppure:
“Ma guarda tu se proprio in questo campo ci dovevano essere tutte questi muri… ci credo che il nonno non riusciva a coltivarlo!”

Ci manca solo che ti tirino le molliche di pane…

Altre volte le persone invece sono incuriosite, ti chiedono di raccontare loro quello che stai facendo. E ti ascoltano proprio volentieri.

Alcuni archeologi non amano molto togliersi i guanti e appoggiare la trowel, avvicinarsi alla rete e parlare con i visitatori, abitanti del posto, persone di passaggio o turisti che siano.

A me invece piace. E tanto!

Perché così mi riposo anche un po’ penserete voi… No, soprattutto perché mi sono accorta che se devo raccontare quello che sto facendo a qualcuno devo prima averlo chiaro io ed è sempre un bell’esercizio.
E poi c’è anche un altro aspetto, il più importante: anche le persone hanno delle cose da dire. Sì, a volte proprio su quello che stai facendo.

“Ma loro non sono archeologi – penserà qualcuno – come fanno a sapere qualcosa del vostro
lavoro?”

Lo sanno invece. Soprattutto gli abitanti del posto, perché loro ci vivono tutti i giorni e sanno cose che tu non sai. Quel campo in cui tu vai a scavare un mese o due all’anno, è un pezzo della loro vita quotidiana: gli adulti ci passano davanti ogni mattina per andare a lavorare,  gli anziani ricordano fatti di quando erano piccoli, i bambini ci passano a fianco ogni pomeriggio in
bicicletta.

Insomma, per te è un sito archeologico, per loro è “casa”.
Condividere il tuo lavoro stabilirà con le persone un rapporto di fiducia: non sarai più un alieno, un “predatore” del loro passato, ma un interprete, una sorta di mediatore che li riconnette con le loro radici più profonde e più lontane.

Questi incontri danno frutti insperati e incredibili.

Sentite che cosa è accaduto a Vignale.
Diversi anni fa, proprio nel modo che ho descritto sopra, abbiamo conosciuto Lino Tani, un signore che vive a Riotorto, il paese vicino allo scavo in cui lavoriamo da molti anni.
Un giorno accosta la macchina sulla via Aurelia, scende e si affaccia alla recinzione,
chiedendo che cosa stiamo facendo.

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Lino racconta a Stefano quello che ricorda di aver visto nel campo (mentre Francesco lo riprende!)

Mentre gli spieghiamo quello che abbiamo capito della storia del sito, a Lino cominciano a brillare gli occhi e ci interrompe di continuo: lui quel campo lo conosce bene, abita a Riotorto da sempre e si ricorda anche che quando era bambino, più o meno negli anni Trenta (eh si, Lino adesso ha più di 90 anni…), in quel campo c’era un capanno per le macchine agricole che aveva sulle pareti dei mosaici colorati che rappresentavano dei pavoni…

“Ma Lino… sei sicuro di quello che dici?”

“Certo che sono sicuro! La memoria c’è l’ho ancora buona sai?”

“E dove era questo capanno?”

“Eh.. mi pare vicino alla strada che porta alla fattoria di Vignale. Me lo ricordo perché il Sabato nel periodo fascista ci portavano a  fare merenda alla fattoria. E passando per la strada ci dicevano che nel campo c’erano le radici della nostra storia; figurati che proprio il capannone lo chiamavano il mosaico!”.

“Ma tu c’eri entrato dentro?”

“Si, me lo ricordo come fosse ora: i muri vecchi erano tutti neri… capirai, con tutto il fumo delle
macchine agricole!”

“E poi questo capanno che fine ha fatto?”

“E’ stato distrutto negli anni Cinquanta, quando hanno allargato la strada… peccato, allora non
c’era la cura che c’è oggi per queste cose”.

Lino è amareggiato e gli piacerebbe che noi provassimo a cercare i resti del capanno.
Cominciamo così a fare alcuni piccoli scavi nei punti che lui via via ci indica.

Ma niente, il capanno non si trova.

Lino è deluso, ma deve arrendersi, come noi all’evidenza, o meglio all’assenza di qualsiasi traccia di quella vecchia costruzione.

“Eppure io dico la verità, vi giuro che c’era!”

Non vuole darsi per vinto, noi, un po’ sì a dire la verità: scavare i sondaggi a mano è molto faticoso!!!

Passano alcuni anni, Lino continua a venirci a trovare e ogni volta rammenta il “suo” capanno,
aggiungendo un dettaglio in più.

“Che peccato… se aveste visto come erano quei mosaici! Voi avreste saputo apprezzarli”.

“E il pavimento come era fatto?”

“Di pietre, i mosaici erano solo sulle pareti.”

Le nostre ricerche intanto proseguono; ormai di Vignale abbiamo ricostruito diversi pezzi di storia: la nascita di una fattoria, poi la costruzione di una grande villa e infine la stazione di posta per i viaggiatori che si spostavano lungo la Via Aurelia.

Già, l’Aurelia: quella è un’altra cosa che sappiamo che è lì da qualche parte, ma che non si trova.

Decidiamo di fare una ricerca di fotografie aeree per vedere se dall’alto si vedono delle tracce
rettilinee che possono essere gli indizi di una strada.

Andiamo a Roma all’Aerofototeca Nazionale, dove sono conservate tutte le foto che ritraggono l’Italia dall’alto. Ne guardiamo un bel po’, alla sera siamo fusi, ma niente, l’Aurelia proprio non si vede nemmeno dal cielo.

Qualcosa che ci interessa però c’è: in una foto scattata dalla Royal Air Force nel 1944 compare, nel campo di Vignale, una costruzione quadrata con il tetto che cattura la nostra attenzione: perchè un capanno per le macchine agricole ha lo stesso orientamento delle strutture romane e non quello della strada moderna?

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Il campo di Vignale ritratto da un volo RAF del 1944.

Vuoi vedere che è il capanno descritto da Lino?
Ma non è nel punto che lui indicava… E se si fosse sbagliato? Vale la pena di andare a dare
un’occhiata. Alla ripresa dello scavo, nel Settembre scorso, individuiamo l’area in cui dovrebbe trovarsi il capanno ritratto dalla foto: proprio a pelo con l’erba del campo infatti affiorano in quel punto dei muri moderni.
Cominciamo a scavare tutto intorno: purtroppo le strutture sono conservate molto basse, solo per pochi centimetri. Anche il pavimento coincide proprio con quello che ricorda Lino: uno strato compatto di pietroni.

I resti della pavimentazione in pietre del capanno agricolo individuato dalla fotografia aerea.

… se questo è quel capanno, i mosaici sono andati di certo perduti. Che peccato!

Decidiamo comunque di delimitarlo tutto per posizionarlo nel nostro rilievo.

Ad un certo punto, sfruttando un punto della pavimentazione in cui mancano i pietroni… cucù!
Appare lui, un pezzo di mosaico!

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Il primo frammento scoperto: piccole tessere colorate rosse, azzurre e gialle.

Mi sento chiamare e mi avvicino e piano piano ci raccogliamo tutti lì intorno mentre alcuni di noi continuano a scavare. Cala quel silenzio carico di meraviglia ed emozione: solo il rumore della trowel e dei pennelli.

Siamo imbambolati.

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Proprio non riusciamo a staccare gli occhi da quei colori… meraviglia!

Poi partono le prime considerazioni e le domande a mezza voce:

“Vedrete che sarà solo un frammento…”

“ Di certo, siamo troppo vicini alla strada e al piano di campagna perché si possa essere conservato abbastanza”

“ Ma saranno le terme che hanno scavato nel 1831?”

“ Ma è colorato?”

“ A me non sembra un mosaico troppo antico… “

“Sarà un pezzo tirato su dagli aratri, chissà da dove viene…”

Da quel momento le ore volano via. Il lavoro di giorno è frenetico e di notte si dorme poco perché si fa  a turno ad andare a vedere che nessuno vada di notte a “visitare” il mosaico.
Il mosaico nel frattempo cresce sotto le nostre mani.

I resti del mosaico integrati con uno schema ricostruttivo.

Sono già oltre 30 metri quadrati, una stanza bella grande della villa con questo pavimento davvero spettacolare che non avremmo mai trovato se non fosse stato per Lino!

E che Lino non aveva mai visto perché lui ricordava solo i mosaici sulle pareti che oggi non ci sono più! All’epoca della costruzione del capanno, forse verso la fine dell’Ottocento, il mosaico pavimentale, che evidentemente allora era visibile, venne coperto con un nuovo pavimento più adatto all’uso agricolo che si voleva fare di quello spazio così antico. Le pareti con i mosaici invece rimasero a vista perché vennero “foderate” all’esterno con dei muri moderni su cui venne poggiato il tetto.

Adesso quel pavimento è tornato alla luce, proprio sotto i nostri occhi e facciamo fatica a credere a tutta questa storia. Intanto si sparge la voce in paese, le persone cominciano a venire a chiedere informazioni.

“Ma è vero che avete trovato un mosaico?”

All’inizio cerchiamo di essere cauti, di non dare troppo risalto alla cosa per non attirare i cercatori clandestini che entrano di notte negli scavi e fanno buchi in giro.

Poi però ci riflettiamo e adottiamo la strategia opposta: raccontare, condividere, coinvolgere. Solo se le persone conoscono, possono comprendere e proteggere il loro passato.

 

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Alcuni dettagli del mosaico: una mano che sorregge un grappolo di uva e due pesci.

 

 

Lino in paese è divenuto una celebrità: al circolo tra una partita a carte e un bicchiere di vino, la caccia e la Fiorentina sono state messe da parte: ora si parla solo di mosaici!

Una storia davvero bella che nasce dall’incontro con una persona, dai ricordi comuni a tanti abitanti del posto. Una storia che ha portato alla scoperta non solo di uno dei mosaici tardoantichi più estesi dell’Italia centrale, ma soprattutto al recupero di un pezzo di passato comune.

Le persone di ogni età si sono strette attorno a quel mosaico insieme a noi, condividendo l’emozione di quella scoperta: con i loro ricordi e il nostro lavoro abbiamo scritto insieme una pagina davvero bella di archeologia pubblica.

Tutti dentro la gabbia!

Adesso che noi non ci siamo, il mosaico dorme di nuovo (momentaneamente) sotto terra: le
persone passano e guardano che tutto sia a posto, che nessuno lo abbia danneggiato.

Lì c’è il loro passato e il controllo su quel campo è molto alto.

“La mattina quando passo per andare a lavoro ci butto sempre un occhio”

“Da quando so che lì sotto c’è quel mosaico, ogni volta che passo rallento e guardo che tutto sia come avete lasciato voi”.

Sappiamo di averlo lasciato in buone mani.
E aspettiamo il prossimo Settembre per finire di scavarlo.
Tornerà anche quest’anno il tempo di raccontare e di ascoltare e sarà ancora una bella pagina di questa storia che scriveremo insieme.

La sindrome della gabbia? Noi a Vignale non ne soffriamo più.

 

 PS La prossima volta vi racconto che cosa è rappresentato sul mosaico…!

Comments (1)

  1. […] a volte, le storie hanno anche un lieto fine: è giusto lasciare la parola agli archeologi Zanini ed Elisabetta Giorgi che ebbero il coraggio di credere ai ricordi di un anziano […]

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