La scorsa settimana ci eravamo lasciati così, con l’archeologo che chiedeva ai bambini se riuscissero a riconoscere una quercia mentre teneva in mano questa buffa pallina…
Ricordavo le gite con mio nonno Mario e la sua proverbiale conoscenza della natura. Mi spiegava tutti i trucchi per coltivare gli ortaggi in modo naturale e mi diceva i nomi di tutte le piante e degli alberi. Mi diceva che proprio le piante l’avevano salvato in guerra. Ma non mi spiegò mai come, per cui mi piaceva pensare che le avesse usate per fabbricarsi delle armi non convenzionali da usare contro il nemico, usando le zucche riempite di robaccia purulenta come bombette tossiche e i ceci come proiettili. Molti anni dopo capii il concetto di “risorsa umana”.
Intanto continuava il toto scommessa su cosa fosse quella strana pallina che ci stava mostrando l’archeologo:
“Una nocciola!”.
“Un sasso!“.
“Un proiettile!”. In genere i maschietti hanno sempre la tendenza a sparare cavolate.
“Una cacca di capra!”. Mazu era incontenibile. Non poteva farne a meno. Rise soddisfatto finché non incrociò lo sguardo del “dopo facciamo i conti” della signora Zorzetti che ad un occhio adulto sarebbe stato interpretato come “se potessi ti raddrizzerei a suon di manrovesci” e quello dell’archeologo che diceva “dopo te la faccio assaggiare così mi dici”.
“Sembra una cosa che nasce sugli alberi!”, dissi.
“Bravo Simone! Si chiama galla e si forma in genere sulle querce un albero che per secoli è stato la principale fonte di materia prima per costruire…un sacco di cose, perfino i castelli!”.
Si capiva che erano tante le cose da come roteava le braccia, quasi volesse abbracciare il mondo intero.
Proseguimmo lungo una stradina che faceva da sponda ad uno stagno molto grande pieno di canne palustri e da confine di una fitta boscaglia sull’altro lato. Solo pochi minuti prima ero seduto su un sedile di un pullman e guardavo la quotidianità moderna dal finestrino mentre ora mi ritrovavo in un ambiente totalmente diverso, quasi inquietante, ma al tempo stesso accogliente. La nebbiolina della mattina e la rugiada sui prati era diversa dal pesante “caligo” che di solito mi raggelava il naso facendolo colare fastidiosamente tra le sette e mezza e le otto e un quarto, il tempo necessario ad entrare in classe.
Ci fermammo sotto un grosso albero, dalla corteggia marrone intenso molto corrugata e con i rami che si diramavano come i capelli di Einstein.
“Questa è una quercia. Guardate per terra e scoprirete come sono fatte le foglie. Io non ve lo dico, provate voi a scoprire che frutti fa questa pianta”.
Camminavamo su un tappeto morbido di foglie secche e…ghiande?
“Signor archeologo queste sono ghiande!”.
“Certo, molto amate dai maiali! Che venivano allevati in spazi protetti all’interno del bosco. Erano un misto tra un cinghiale e un maiale rosa”.
Non stavo più seguendo il filo del discorso.
“Quindi se queste sono il frutto, come fanno a crescere quelle cose..?“.
“Le galle?” .
“Ecco sì, le galle! Non sono dei frutti?“.
“Sapete perché dico questo? – aggiunse l’archeologo – Perché molte cose che non vediamo più sono rimaste impresse nei documenti scritti, testimonianza indelebile della memoria. Chi di voi ha un diario segreto? Pensate quando lo troveranno gli archeologi fra mille anni! Quante cose si possono conoscere del vostro passato”.
Dovevo cancellare quelle fantasie che avevo scritto sulla Mariolli. Poi pensai che tanto fra mille anni non avrei potuto essere presente alla figuraccia quindi abbandonai immediatamente il progetto.
“Lo sapete che ad esempio nel vostro paese c’era un castello?”.
Lo sguardo attonito di molti che si guardavano come se non fosse possibile.
“E dove?”, chiese Mazu. La questione cominciava ad intrigare pure lui.
“Eh eh. E’ qui che viene il bello del lavoro dell’archeologo. Lo sappiamo perché abbiamo un documento scritto originale che ce lo dice. Ricostruiamo il nostro passato mettendo insieme tanti indizi come questo. Arriviamo a poter ipotizzare chi eravamo, come era il paesaggio in cui vivevamo e come costruivamo, cosa mangiavamo che tipo di attrezzi costruivamo. Oggi mi piacerebbe farvi capire come il lavoro e l’ingegno di persone come noi, ma con molto meno di noi abbiano potuto creare soluzioni per vivere cogliendo quello che la natura gli forniva. Natura e uomo convivevano in un rapporto di amore e odio continuo, ma vitale. Mi piacerebbe farvi capire che quanto abbiamo noi adesso e che ci rende la vita più comoda, come il computer, il forno a microonde, il trapano elettrico per esempio, esistono grazie alla creatività con cui queste genti risolvevano problemi quotidiani. Lasciamo perdere le grande battaglie e i grandi re che leggiamo nei libri ed addentriamoci nella quotidianità della vita di tutti i giorni, riscopriamo il paesaggio in cui viviamo e capiamo cosa c’è di antico. Guardiamo le piccole cose, i piccoli indizi. L’archeologia è la nostra macchina del tempo”.
“Ma quindi la galla?”, chiese la Bonessi che stava dimostrando una natura innata per la critica. La immaginai avvocato o giornalista freelance o semplicemente spaccaballe.
“Voglio farvi notare come in una piccola cosa come questa ci possa essere una storia immensa, fatta di cose, persone, vicende, guerre e re. Dobbiamo solo imparare a guardare”.
Questa frase mi restò impressa. Alle volte ci sono episodi nella vita apparentemente insignificanti, che invece diventano la scintilla di innesco del nostro percorso formativo per diventare grandi. Ma questo l’avrei scoperto solo molti anni più avanti così come che l’archeologia non è solo una disciplina, ma uno strumento per vedere attraverso il passato il nostro futuro. Nel presente però mi piaceva fantasticare in quel bosco in cui ormai mi sentivo veramente nel medioevo. Immagino di vedere su tutti i nostri cellulari la scritta “no signal” e di vedere ad un certo punto uscire dalle fronde verdeggianti un branco di lupi famelici che con velocità canina afferrano Mazu e lo trascinano nel bosco. Sbranato per la seconda volta.
“Quindi come si scriveva un documento o un libro ragazzi?”.
“Sulla pergamena!”. La Mariolli mi piaceva c’era poco da fare, era corteggiata da un sacco di ragazzi, che non considerava minimamente di pezza. Nascosta da quella folta chioma di capelli nerissimi e ricci c’era una testolina che macinava pepe e salava il mondo.
“Bravissima” E su questa pelle si usava, come succede oggi, l’inchiostro. E qui entra in campo la nostra galla. Perché cari ragazzi, dovete sapere che uno dei modi più comuni nel medioevo per produrre l’inchiostro necessario alla scrittura proveniva da un particolare trattamento destinato a queste palline che altro non sono che delle escrescenze della pianta formate per contrastare l’azione di un insettino parassita”.
Stavo forse iniziando a rendermi conto che ogni piccola cosa del bosco, della palude, delle radure, dei fiumi, diventava una risorsa. Stavo capendo la creatività sottoforma di capacità di trasformare la materia prima per ottenere ciò che serviva. Nel nostro mondo non c’è nulla che non ci arrivi in casa già trasformato da altri. Mi stavo rendendo conto che io, in quell’ambiente, così piacevole e genuino non sarei sopravvissuto un giorno. Ero nel loro mondo, quello dei cavalieri e dei castelli e io non sapevo nulla.
“Bene seguitemi, conosco un posto dove troveremo una zuppa calda”, aggiunse l’archeologo.
Alla fine del sentiero si apriva una radura sulla qualche campeggiava una struttura di legno col tetto in paglia. Ci dissero che è più corretto dire in canne palustri, perché più adatte. Di fronte all’ingresso c’era una olla di ceramica su un focolare che disperdeva nell’aria la sua nuvola di vapore.
“Lo sapreste accendere il fuoco?“.
Qui la fantasia dei miei compagni di classe fu esplosiva, la più creativa fu la Ganazzin, rimasta per le sue fino allora, che propose la bacchetta magica di maga Magò. E ci credeva veramente. Ma il medioevo aveva il proprio sistema.
Non vedevo l’ora di scoprirlo.
Archeologo padovano con una lunga esperienza di didattica coi bambini, specializzato alla Scuola Interateneo di Specializzazione in Beni Archeologici Trieste-Udine-Venezia
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