Quanti oggetti antichi avete visto nella vostra vita? Vi sarà capitato di entrare nelle sale di un museo archeologico almeno una volta, magari accompagnati dai vostri genitori o forse insieme ai vostri compagni di classe.
Beh, se è così, vi sarete certo accorti di quanti oggetti strani e curiosi ci siano all’interno delle vetrine, ma soprattutto avrete visto un gran numero di cose che vi saranno sembrate molto simili tra loro, per nulla straordinarie e la cui vera grande caratterista è quella di essere cose vecchie. Non è una colpa, è normale che vi capiti di pensarlo, perché molto spesso non conoscete questi oggetti e la possibilità di confonderli, accomunarli e poi ignorarli è alta. Pensate a quando vi trovate in una folla, le persone intorno a voi sono tante, magari hanno colori di capelli diversi, vengono da paesi in cui non siete mai stati, hanno caratteri unici, forse qualcuno cattura il vostro sguardo perché indossa una maglietta che vi piace, ma alla fine vi sembrano tutte uguali e non fa differenza per voi, alla fine sono persone. Poi scorgete tra i tanti volti un viso familiare, riconoscete un amico, anche lui è una persona come le altre, ma il fatto di conoscerlo lo rende immediatamente speciale, degno di attenzione e non ignorato come le altre.
Ecco il perché di questa rubrica. Post dopo post impareremo piccoli e grandi trucchi che servono per distinguere i reperti archeologici a colpo d’occhio, così che ogni visita al museo si trasformi in una splendida avventura, perché superato lo scoglio del riconoscimento sarà più facile svelare e apprezzare le diverse storie che ogni oggetto ha da raccontare. Esattamente come l’amico nella folla: lo vedo, capisco chi è, mi ricordo e sono interessato a approfondire sempre di più l’amicizia/conoscenza.
Iniziamo con un oggetto molto comune e che probabilmente si trova in quasi tutti i musei archeologici, quindi impossibile da non notare.
Come la gran parte dei reperti archeologici, anche il protagonista, o meglio la protagonista di questa settimana è di ceramica, cioè realizzata con l’argilla, una terra facile da individuare e da lavorare, cotta in forni ad alte temperature.
Se la guardate attentamente vi accorgerete che ha solo un manico, troppo piccolo per poterci infilare le dita, ma abbastanza robusto per poterla sollevare. Quando veniva utilizzata il suo peso doveva essere maggiore rispetto a quello di oggi, non perché sia dimagrita nel tempo, ma perché al suo interno era contenuto un liquido che le serviva per funzionare, liquido che adesso non c’è più. La sua forma è molto graziosa e ricorda un po’ quella di una piccola teiera, direi una teiera giocattolo, ma la nostra protagonista non era un balocco e anche se conteneva un liquido non si trattava certo di una bevanda gustosa.
Forse appena vi dirò il suo nome sarà tutto più chiaro, in tutti i sensi. Il panciuto oggetto di questa settimana è la lucerna; proprio così, come suggerisce il suo nome si tratta di un piccolo strumento di luce, portatile. Capite ora perché se ne trovano in grande quantità? Immaginatevi quanto dovevano essere importanti le lucerne in un mondo dove la corrente elettrica era sconosciuta, immaginatevi quanti bambini l’avranno voluta accanto prima di addormentarsi.
Ma senza energia elettrica come poteva illuminare? Vi ricordate il famoso liquido? Beh, come abbiamo detto era quello la chiave del successo: le lucerne erano riempite di olio al quale
veniva dato fuoco, la fiamma poi usciva dal becco (ragazzi che volete farci si chiama così) cioè quel foro allungato che si trova dalla parte opposta rispetto al manico. Se sarete attenti e
fortunati, infatti, noterete alcune tracce nere sul becco della lucerna che avete davanti, badate bene quelle non sono semplici macchie, ma tracce di bruciato, sono le impronte del fuoco di più di 2000 anni fa, incredibile, no?!
Non pensiate però che un’unica lucerna potesse illuminare a giorno un’intera stanza, impossibile,
una sola fiammella poteva al massimo far vedere dove si mettevano i piedi o poco più, e anche se se ne avevano a disposizione molte il tipo di illuminazione che si otteneva non era certo paragonabile a quello delle nostre case. L’atmosfera che generavano doveva essere piuttosto suggestiva e poco nitida; guarda caso, succede di frequente che gli archeologi trovino una grande quantità di questi reperti non solo in quelle che erano abitazioni, ma anche in quei luoghi
appartati e un po’ misteriosi dove la luce serviva, ma era necessario anche il buio, come a esempio le stanze dove venivano celebrati riti religiosi particolari e segreti.
Ormai è fatta, abbiamo imparato a conoscere e riconoscere le lucerne: oggetti piuttosto
piccoli e tondeggianti, con un becco dal quale usciva una fiammella ottenuta bruciando l’olio contenuto al suo interno.
Un’ultima cosa, non tutte, ma alcune lucerne hanno il disco (cioè la parte alta che non permette all’olio di uscire fuori) decorato e potrebbe essere il caso di quella che state guardando voi. Le scene rappresentate sono di solito tratte dalla mitologia o dall’epica, allora bastava una sola immagine a richiamare un intero racconto, esattamente come nella foto qui sotto: vediamo semplicemente un buffo uomo legato a un montone, in realtà si tratta di un importante episodio
dell’Odissea, un attimo dell’astuto piano di Ulisse per sfuggire dalle grinfie del ciclope Polifemo.
E voi, riuscite a riconoscere il vostro mito?
Io e l’archeologia non ci siamo amate fin da subito. Quando da bambina incontrai un’archeologa, capii che passare ore sotto al sole piegati, sporchi di terra e sudati non poteva fare per me. Ma come nelle migliori storie, gli amori più grandi nascono da scontri all’apparenza definitivi.
Da circa sette anni mi occupo di didattica, mi diverte molto cercare i linguaggi adatti e creare le esperienze giuste per coinvolgere i bambini anche i più scettici come lo era la sottoscritta tanto tempo fa.
Comment here