Qualche giorno fa ho visto il film, ispirato ad una storia vera, “La sposa bambina”. Protagonista una ragazzina yemenita di nome Nojoud, ovvero “nascosta” – come l’aveva ribattezzata suo padre alla nascita – che a soli 10 anni viene letteralmente venduta dal padre ad un uomo più vecchio di lei di almeno trent’anni e costretta a sposarlo.
Le ragioni di questa scelta sono soprattutto economiche: la famiglia di Nojoud versa, a seguito della violenza subita dalla sorella maggiore della ragazzina e all’abbandono del proprio villaggio, in una situazione di povertà a cui solo la vendita della figlia più piccola può porre rimedio. Lo sposo promette al padre di Nojoud di non consumare il matrimonio almeno fino a quando la sua sposa non avrà raggiunto la pubertà; ma la promessa è disattesa la sera stessa delle nozze. La bambina viene ripetutamente violentata e costretta servire la suocera. Ma Nojoud è una bambina con uno spirito libero e ribelle; un giorno riesce a fuggire al controllo del marito, si rifugia in tribunale e qui un giudice, che prende a cuore il suo caso, la aiuta ad ottenere il divorzio.
Pensate: divorziare a soli 10 anni, l’età in cui tutte le bambine dovrebbero andare a scuola, correre sui prati, giocare con i propri coetanei, dar forma e sostanza ai propri desideri, non pensare a null’altro se non ad essere felici, circondate da una famiglia che le sostenga e dia loro l’affetto necessario per avere fiducia in se stesse.
Il fenomeno delle spose bambine, ragazzine costrette a rinunciare alla propria infanzia e asservite a un uomo che dispone del loro corpo e della loro vita, è un fenomeno antico e purtroppo ancora attuale in molti Paesi del mondo.
Partiamo da lontano. In Egitto, dove pure le donne godevano di una certa autonomia e potevano liberamente scegliere il proprio coniuge, già a 14 anni una ragazza era considerata abbastanza matura per il matrimonio e dunque per avere dei figli.
Le cose andavano di gran lunga peggio nel mondo greco, dove le donne erano considerate esseri inferiori, creature temibili e ammaliatrici, e per questo relegate tra le mura domestiche, fatta eccezione per rare occasioni come le festività religiose, i matrimoni o i funerali. A Creta l’età minima per il matrimonio era di soli 12 anni, mentre ad Atene oscillava tra i 14 e i 20 anni circa, a seconda delle condizioni economiche della famiglia di appartenenza. Generalmente, tuttavia, gli ateniesi erano favorevoli a matrimoni precoci, immediatamente successivi al primo menarca, nonostante le perplessità sulla questione espresse da autori come Platone o come Aristotele, convinto che l’accoppiamento tra corpi troppo giovani potesse causare la morte per parto delle donne e danneggiare la salute del neonato. Così la pensavano anche gli abitanti di Sparta, popolo che accordava estrema importanza all’esercizio fisico; qui le donne si sposavano soltanto tra i 18 e i 20 anni, quando ormai i corpi erano formati, robusti e in pieno vigore fisico, pronti a procreare.
A Roma i matrimoni erano decisi dai parenti, quasi sempre per ragioni economiche o per stringere alleanze politicamente vantaggiose. Un padre poteva promettere in sposa la propria figlia anche contro la sua volontà e tale rito era ritenuto un atto giuridicamente valido; la cessione avveniva generalmente intorno ai 12 anni, ma vi sono iscrizioni funerarie che parlano di fanciulle morte, evidentemente per parto, a soli 10 o 11 anni.
Non c’era ombra di amore in queste unioni decise a tavolino, ma unicamente la preoccupazione tutta maschile di assicurare una discendenza alla propria stirpe. Quello che le donne desideravano o pensavano in merito non aveva alcuna importanza. Il matrimonio sanciva di fatto il passaggio della bambina dalla potestà del padre a quella del marito; in ogni caso sarebbe stato sempre un uomo a decidere della sua sorte e anche della sua morte, a cui veniva condannata se colta in flagranza di adulterio o addirittura a bere vino.
Fa un certo effetto pensare a quante siano state dall’antichità ad oggi, passando per il Medioevo e l’età moderna, le adolescenti costrette a vivere una vita non scelta senza possibilità alcuna di obiezione. Probabilmente, andando a ritroso nel tempo e riscoprendo le vicende coniugali di bis- e trisnonni, nella famiglia di ciascuno di noi c’è una storia di non-amore, di matrimoni combinati e di ragazzi giovanissimi costretti dalla mentalità corrente, da costumi discutibili, dall’ignoranza e dalla povertà ad unioni che li hanno resi infelici per sempre e schiavi di ruoli precostituiti.
E nonostante oggi le cose siano cambiate, gli stereotipi in parte superati ma non ancora demoliti, nonostante il progresso e una più diffusa consapevolezza abbia ristabilito gli equilibri tra mondo maschile e femminile, accordando alle donne la libertà di sposarsi ma anche di non farlo, di avere figli o di rinunciarvi, sono tantissime – soprattutto nei cosiddetti Paesi meno sviluppati e progrediti, come il Ciad, la Somalia, l’Afghanistan, lo Yemen, l’India, la Siria – le bambine costrette a matrimoni precoci. Le cifre pubblicate da associazioni come Save the Children, Amnesty International, Terres de Hommes, impegnate a prevenire e combattere questo fenomeno, sono da bollettino di guerra: ogni anni 15 milioni di matrimoni hanno per protagonista una minorenne e in un caso su tre si tratta di una bambina con meno di 15 anni. Questo vuol dire che ogni 7 secondi, da qualche parte nel mondo, mentre qui nel ricco e civilizzato Occidente una bambina legge un libro, pratica sport o gioca con una bambola, altrove una sua coetanea si sposa con un uomo molto più grande di lei contro la sua volontà.
Queste spose bambine devono rinunciare agli studi, sopportare stupri e violenze domestiche e incorrere nel pericolo di morire di parto (quasi 70.000 casi ogni anno) o mettere al mondo figli ad alto rischio di natalità infantile, o in qualche modo esposti a disturbi cognitivi, ritardi, denutrizione.
Molte si suicidano per la disperazione, la vergogna, l’infelicità, perché il solo pensiero di una vita intera vissuta all’ombra di un marito-padrone le paralizza e toglie il respiro, annienta ogni più piccola speranza.
C’è un filo rosso che non accenna a volersi spezzare, ed è quello che lega il destino delle spose bambine di ieri a quelle di oggi. Ci sono secoli di violenza fisica e psicologica perpetrati a scapito di creature a cui è stato negato il diritto di essere bambine, il diritto al gioco, all’istruzione, al lavoro, all’indipendenza, all’amore. E quello che più sconcerta è che spesso questi diritti sono stati calpestati nell’indifferenza più assoluta degli uomini, delle famiglie, delle istituzioni politiche e religiose. Come se non ci fosse e non ci potesse essere scampo a un destino segnato.
Si dice che la storia dovrebbe insegnarci a non commettere più certi errori ed orrori, che l’insegnamento di ciò che è stato dovrebbe correttamente illuminare e indirizzare l’operato di ciascuno, uomo e donna. Perlomeno, questo è quello che dovremmo insegnare ai bambini quando si approcciano allo studio del passato, anche se le vicende quotidiane sembrano ostinatamente sconfessare l’ovvietà di questo assunto di base.
Qualche settimana fa mi ha colpito la frase di un noto archeologo italiano, Daniele Manacorda all’incontro organizzato da Archeostorie a Firenze (Tourisma, 17-19/2/17), che definiva l’archeologia come “lo strumento che ci permette di vivere le vite degli altri”. È senza dubbio una bella definizione da proporre ai bambini quando si parla loro di archeologia e di storia; ciascuno di noi vorrebbe anche solo per poco tempo calarsi nei panni di un faraone o di un’imperatrice romana, di un eroe greco o di una regina. Ma ci sono anche vite che nessuno vorrebbe aver vissuto e che nessuno dovrebbe vivere neppure oggi, come appunto la triste esistenza delle spose bambine.
E allora io credo che la storia sia una sorta di cannocchiale rovesciato, che ci aiuta a vedere meglio non ciò che è lontano ma quanto è a noi vicino nello spazio e nel tempo. Uno strumento per cogliere, con lucidità e spirito critico, le storture di un mondo che a volte sembra non essersi mai evoluto e che procede a velocità differenziate, incurante di chi è rimasto indietro e che non sa come fare a colmare la distanza che c’è nel mezzo.
Cosa può fare una bambina occidentale per impedire il matrimonio di una sua coetanea indiana? Apparentemente nulla, ma di fatto molto. La conoscenza, il creare connessioni tra passato e presente e proporli ai bambini – alle femmine certo, ma anche e soprattutto ai maschi – può servire a far maturare una consapevolezza che un giorno potrà aiutarli a migliorare il proprio e l’altrui destino. E dunque – citando ancora una volta Manacorda – “accettare la storia non significa giustificarla, ma comprenderla, e sentire il suo peso nella costruzione del futuro di tutti e di ciascuno”.
Mi chiamo Giovanna e vivo in Puglia. Ho sempre avuto le idee molto chiare: a 8 anni sapevo già che avrei fatto l’archeologa. Per anni mi sono divisa tra gli scavi e montagne di mattoni, tegole e coppi. Chissà, forse sono fatta un po’ di argilla…
Poi, ho capito che dovevo raccontare l’archeologia ai bambini e dare un senso, una prospettiva al mio lavoro. E allora ho scoperto una cosa fondamentale: le storie sono l’unica cosa che ci lega al passato e al futuro e che nessuno potrà mai portarci via.
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