Oggi proponiamo un punto di vista diverso, quello di un’insegnante.
La maestra Annamaria insegna italiano e storia presso la Scuola Primaria di Gambassi Terme (FI) e collabora da diversi anni con archeologi che operano nel territorio. Quella che segue è una piccola intervista che le è stata rivolta, durante la quale abbiamo parlato di scuola, bambini e archeologia.
È importante parlare di archeologia nelle scuole? E se lo è perché?
È importante parlarne perché, secondo me, dovrebbe essere parte integrante del programma di storia. La storia è una disciplina che risulta eccessivamente astratta per i bambini, dal momento che non possiedono del tutto i concetti di tempo (la successione e la contemporaneità degli eventi, i processi di causa-effetto, la trasformazione dell’ambiente per mano dell’uomo, ecc). Per favorire quindi queste acquisizioni concettuali occorre creare continuamente collegamenti con il loro campo esperienziale, cioè rendere il contenuto da apprendere il più vicino possibile al loro vissuto. In questo l’archeologia aiuta moltissimo il lavoro dell’insegnante, perché rende, dal mio punto di vista, la conoscenza della storia più concreta e non solo un insieme di nozioni. Le attività laboratoriali, infatti, invitano il bambino alla riflessione e a tradurre le esperienze pratiche in concetti.
Inoltre è importante parlarne in classe perché nei libri di testo relativi alla storia, viene dedicato un minimo spazio, a volte anche fin troppo ridotto, all’archeologia e spesso il tutto si riduce ad una paginetta in cui vengono presentate tutte quelle professionalità che sono utili per la ricostruzione del passato in un elenco di paroloni che per i bambini non significano proprio niente. Il paleontologo è accanto all’archeologo, all’antropologo, al paletnologo, e all’archeologo subacqueo, quest’ultimo è quello che di solito riscuote più successo, forse perché di parole difficili ne ha ben due.
Da quanti anni collabori con gli archeologi?
Da circa 20 anni.
Quindi la ritieni una collaborazione proficua?
Tanto proficua che l’ho perseguita per quattro cicli e ho cercato di coinvolgere in questo rapporto anche le mie colleghe.
Perché è importante avere degli esperti in classe?
Perché la nostra professionalità non comprende le conoscenze che può avere un esperto, in questo caso l’archeologo. Inoltre per il bambino il doversi relazionare con un altro soggetto che non sia la propria insegnante, è certamente un arricchimento personale. Questo perché l’apporto che ogni altra persona dà in termini di esperienza, linguaggio ed empatia aiuta il bambino nella costruzione di un bagaglio indispensabile per la sua crescita globale, intellettiva e non.
Come reagiscono i bambini alla presenza di un estraneo all’interno della propria classe? E cosa rimane loro da questi incontri?
I bambini vanno sempre saputi preparare agli incontri con degli esperti. In questo la mediazione dell’insegnante è importantissima. Quando si introducono persone nuove nel contesto classe è necessario far capire ai bambini che questo “estraneo” viene appositamente per insegnarci cose nuove e interessanti, in questo modo sono i ragazzi stessi a creare un clima il più accogliente e partecipativo possibile. Se l’insegnante ha fatto un buon lavoro di preparazione, i bambini sono entusiasti di confrontarsi con gli archeologi e di solito sono molto recettivi. Se poi l’attività che viene loro proposta è stata studiata e calibrata opportunamente i risultati sono ottimi, perché riescono visibilmente ad apprendere con soddisfazione e cognizione di causa i vari contenuti.
Come archeologi abbiamo il dovere di divulgare e comunicare i risultati delle nostre ricerche. Questo ci porta spesso ad interrogarci sui modi e sugli approcci con i quali la comunicazione con il grande pubblico debba avvenire. Maggiore attenzione e cura viene, ovviamente, rivolta nel caso in cui ci si rivolga ai bambini. Esiste, nell’ottica di un insegnante, una cattiva e una buona comunicazione? E poi: si può spiegare tutto ai bambini?
Per me si ha una buona comunicazione quando si riesce a trovare un linguaggio adatto. Lo sforzo in pratica che deve fare uno studioso è quello di trovare sinonimi e accorgimenti al linguaggio specifico della sua disciplina. Se, per così dire, questo processo di traduzione avviene, allora il messaggio, l’informazione arriva ai bambini. Sono quindi convintissima che si possa insegnare e parlare di tutto con i bambini a patto che, appunto, si riescano a trovare attività e linguaggi alla portata delle loro esperienze.
Quella dell’archeologo è indubbiamente una figura affascinante per i bambini. Questo strano detective che indaga le cose di un lontano passato attraverso delle tracce non può che solleticare l’immaginazione dei ragazzi. Tuttavia quello dell’archeologo è un lavoro incredibilmente serio. Come deve porsi l’archeologo per far capire che le sue attività non sono solo divertenti indagini ma un vero e proprio mestiere?
[Ride] Senza dubbio un bambino è affascinato dall’archeologo. Si può evitare questa visione eccessivamente romanzata con la testimonianza diretta dell’esperto, che deve raccontare il proprio lavoro a 360 gradi. Lavoro che non è solo scavo e avventura ma anche studio e ricerca. Inoltre, ripeto, perché un bambino comprenda la complessità e le particolarità di questo mestiere occorre che lui stesso “riviva” e riproduca quelle stesse esperienze e attività che il professionista ha raccontato e illustrato. Di nuovo: fare per capire.
Quando hai introdotto stabilmente l’archeologia nel programma scolastico hai dovuto cercare gli esperti o ti sono state proposte delle attività dall’esterno?
La scelta di introdurre l’archeologia nel mio programma di storia, e quindi allargare l’offerta formativa ai miei alunni, è nata da un incontro fortuito e casuale con un’archeologa che, allora, stava operando nel territorio del comune in cui lavoro. Dal nostro confronto nacque l’idea di effettuare piccoli interventi da parte sua nella mia classe (mi ricordo ancora il laboratorio di scheggiatura delle selci). I risultati proficui di quelle esperienze incuriosirono molto anche le mie colleghe che vollero introdurre attività analoghe nel loro programma didattico.
Poi, col tempo, ho dovuto faticare sempre meno per trovare laboratori di archeologia da proporre alla classe; questo perché associazioni culturali, singoli professionisti e i vari musei archeologici della zona hanno iniziato ad inviare alla scuola, con una certa regolarità, le loro offerte didattiche, allargando notevolmente la mia possibilità di scelta.
Quindi, secondo la tua esperienza, in qualche modo è cambiato l’atteggiamento degli archeologi e di enti, quali i musei, nei confronti della scuola?
Direi proprio di sì. Anche quest’anno sono arrivate moltissime proposte alla nostra scuola.
Penso che sia dovuto in parte alla sensibilizzazione e all’attenzione che diversi insegnanti hanno maturato verso questa disciplina ma anche dal bisogno dell’archeologo di uscire dalle aule universitarie e di allargare il proprio campo di azione e relazione.
Io e l’archeologia non ci siamo amate fin da subito. Quando da bambina incontrai un’archeologa, capii che passare ore sotto al sole piegati, sporchi di terra e sudati non poteva fare per me. Ma come nelle migliori storie, gli amori più grandi nascono da scontri all’apparenza definitivi.
Da circa sette anni mi occupo di didattica, mi diverte molto cercare i linguaggi adatti e creare le esperienze giuste per coinvolgere i bambini anche i più scettici come lo era la sottoscritta tanto tempo fa.
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