“Vi racconterò dunque di Ulisse, che distrusse Troia, e stanco della guerra, come tutti gli altri Greci, voleva tornarsene dai suoi, così preparò la nave e prese il largo. Viaggiando incontrò città e genti diverse: voleva riportare a casa i suoi compagni, ma quelli sciocchi, scannarono i buoi del Sole e se ne riempirono le pance, così il Sole s’arrabbiò e li uccise tutti”.
(Carola Susani, Odissea, LaNuovafrontiera junior)
Ulisse è uno dei personaggi dell’epopea greca antica più amato dai bambini. È coraggioso, certo, e nella lotta sa farsi valere quanto i suoi compagni. Ma è soprattutto intelligente, scaltro, curioso e ama viaggiare, solcare mari e conoscere terre e popoli ignoti. Non teme ciò che è diverso da lui, lo ricerca come se non potesse farne a meno e se ne nutre avidamente.
La vicenda di Ulisse è un buon punto di partenza per provare a raccontare ai bambini una storia molto più ampia, lunga e complessa che ha a che fare con il Mediterraneo e con tutti quei popoli che nei secoli l’hanno attraversato, a volte facendosi guerra, il più delle volte contaminandosi e arricchendosi a vicenda.
Questa storia, con tutto il carico di implicazioni culturali e artistiche che ha avuto, è il filo conduttore della mostra Pompei e i Greci allestita nella Palestra Grande del Parco Archeologico di Pompei, un luogo storico già di per sé ricco di suggestioni.
Invitata da Electa, ho avuto la possibilità di visitare la mostra, assieme ad altre colleghe archeoblogger, qualche giorno fa.
L’allestimento, pur nella sua lineare chiarezza, è stato concepito per un pubblico adulto; non vi sono pannelli, didascalie o installazioni a misura di bambino. Eppure credo che l’impatto visivo ed emotivo sui più piccoli sarebbe enorme, li lascerebbe con gli occhi sgranati, il fiato corto e con tante domande nella testa, proprio come è accaduto a me.
Prima di entrare negli spazi della Palestra occupati dalla mostra, ci siamo imbattute in un gruppo di bambini, con cappellini e magliette bianche, che all’ombra dell’anfiteatro giocavano alla maniera dei fanciulli romani: lanciare delle palline per buttar giù delle biglie.
Ecco, se quei bambini avessero visto come me la mostra, che cosa avrebbe attirato la loro attenzione, suscitato il loro stupore o provocato la loro ilarità? Ma soprattutto, come si sarebbe potuto spiegare loro che Pompei, pur non essendo una città fondata dai Greci, è stata profondamente contaminata dalla loro cultura in modi e forme che l’archeologia è solo in grado di ricostruire?
Il percorso della mostra, articolato in tredici sezioni, è scandito da colori diversi, uno per ciascun tema. Di sala in sala, di colore in colore, si compie un viaggio nel tempo che è metafora delle storie di attraversamenti e arrivi che hanno segnato il Mediterraneo. Un destino che si ripete, ma di cui oggi non sappiamo cogliere il senso.
Questi colori, ora cupi – come gli abissi del mare da cui riemergono assai spesso tracce di vite remote -, ora luminosi, sarebbero forse la prima cosa che i bambini noterebbero. E proprio alla scansione cromatica si potrebbe agganciare un racconto che faccia percepire loro, anche solo in minima parte, la multiculturalità che, sin dalla sua fondazione, ha interessato la città di Pompei come di tante altre città campane o del Sud Italia. Da sempre, ci sono stati uomini che proprio come Ulisse hanno avvertito forte il desiderio di viaggiare e spostandosi e poi insediandosi in nuove terre, hanno portato con sé lingue, costumi, merci, saperi e di buon grado hanno mescolato tutto questo con quanto gli stranieri incontrati erano in grado di offrire.
In fondo, è un po’ quello che accade nelle classi di bambini multietniche: italiani, cinesi, africani, albanesi, arabi. Le differenze non contano quando a prevalere è il desiderio di entrare in contatto l’uno con l’altro, esplorarsi e scambiarsi quello che si sa (un ‘ciao’ in tutte le lingue) o si ha (merende diverse a seconda delle abitudini gastronomiche di ogni cultura).
La città di Pompei ha alle sue spalle una storia ben più lunga e a tratti sconosciuta di quella culminata nell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Molti secoli prima a fondarla furono delle genti italiche; i Romani non c’erano ancora, vi erano sicuramente gli Etruschi e i Greci. Furono proprio questi, abili e straordinari artigiani, a costruirne e decorarne i santuari, come quelli ad esempio dedicati ad Apollo e ad Atena.
Le cornici del Tempio Dorico di Pompei, come quelle del Tempio A di Metaponto o della Basilica di Poseidonia, sono abbellite con facce leonine contratte in ruggiti feroci che sembra quasi di udire accostandosi alla parete.
Di sicuro, un bambino le guarderebbe stupito. Come non passerebbe inosservato il grande scudo, forse di una statua di Atena e con la raffigurazione di due cavalli affrontati, di cui restano solo pochi frammenti. Il desiderio di disegnarne uno uguale sarebbe irresistibile!
Nella sala successiva un’intera parete gialla è occupata dalle decorazioni del palazzo del principe (Anaktoron) di Torre di Satriano, in Basilicata. Il colpo d’occhio è notevole e il pretesto sarebbe ottimo per spiegare ai più piccoli come spesso questi signorotti indigeni, per accrescere la propria autorevolezza agli occhi dei sudditi, amassero vivere alla greca e circondarsi di architetti e costruttori greci per tirar su edifici perfettamente uguali a quelli della loro patria.
Le sculture, i fregi delle lastre con scene di combattimento tra eroi, le tegole incise con numeri greci per indicarne l’ordine di posa sul tetto: sarebbero tanti i dettagli su cui indugiare e che scatenerebbero una valanga di “perché?” e “a che serviva?”
Se ci fossimo trovati a quell’epoca nel porto di Pompei o Sorrento o Pozzuoli, avremmo ascoltato gente parlare in greco, etrusco, italico, scambiarsi merci e condividere storie, conoscenze, tradizioni.
E di questa preziosa mescolanza linguistica e culturale sono testimonianza le iscrizioni riportate sui vasi di questo periodo.
“Mi mamarces tetanas”, cioè “Io (sono il vaso) di Mamarce Tetana”, c’è scritto in etrusco su un kantharos, una coppa per bere, proveniente da Pompei. Un modo per indicare il possesso di un oggetto comune come un bicchiere.
Poi però qualcosa cambia. E qui, spostandosi nelle sale successive, il racconto si fa più concitato, le atmosfere più buie, cariche di tensione. Si ode il rumore minaccioso del mare e nell’installazione multimediale sulle pareti si vedono le navi scontrarsi tra i flutti.
Video di Giovina Caldarola
La fondazione di Neapolis crea una frattura, rompe gli equilibri e porta a quella terribile battaglia navale tra Cumani ed Etruschi che si concluse con la sconfitta di questi ultimi. Il racconto delle battaglie, ancor di più se in mare, appassiona i bambini e qui ritorna prepotente alle memoria Ulisse che ritroviamo rappresentato, sulle pareti di un’olla famosissima e riprodotta su molti atlanti scolastici, come incatenato all’albero maestro della nave per resistere al canto delle Sirene.
Le sorti della città di Pompei ne risentono; è come se tutto all’improvviso si fermasse per uno strano incantesimo. Poi però, con l’ellenismo e all’epoca di un altro grande eroe del mondo antico, Alessandro il Macedone, le lancette della storia tornano a girare freneticamente, i contatti tra Pompei e la Grecia si fanno più solidi di prima e le domus con i loro affreschi e mosaici sono nuovamente intrise di bellezza classica.
Arrivati a questo punto del racconto, non solo ci sarebbe da perdere la testa con tutte le forme ceramiche esposte – provare a trovare dei paralleli tra ciascun oggetto e il suo corrispettivo moderno sarebbe uno di quei giochi che con i bambini potrebbe andare avanti per ore – ma le raffigurazioni di eroi e divinità su molti dei vasi sarebbero dei veri e propri libri parlanti da leggere e commentare assieme, soffermandosi sui dettagli, sulle espressioni dei volti, sugli animali spesso presenti nelle scene.
Pian piano la cultura greca entra prepotentemente a far parte della quotidianità nella città di Pompei e lo si percepisce con chiarezza nelle ultime sale della mostra. Non è solo la lingua a fare da ponte, quell’alfabeto greco che i bambini si esercitavano a scrivere sui muri; ma ogni oggetto, statua, elemento decorativo, affresco, costume rimanda a modelli greci, a mode e stili che vengono assorbiti e personalizzati.
Tra i tanti reperti esposti in queste ultime sezioni, c’è un set di argenterie da Moregine a cui è legato uno di quei gialli che ai più piccoli piacciono tanto: di mezzo ci sarebbe un ladro che avrebbe rubato queste stoviglie in argento e le avrebbe nascoste in una latrina. Di sicuro voleva tornare a riprendersele, ma per qualche oscura ragione non ce l’ha fatta.
Le suggestioni, gli oggetti, le curiosità, le immagini che potrebbero catturare l’attenzione dei bambini sono in realtà molti di più di quelli che ho provato a riassumere in queste righe. Ogni storia può essere raccontata in mille modi diversi, ogni volta enfatizzando particolari o dando rilievo a personaggi nel racconto precedente lasciati in ombra o sottovalutati.
Ma c’è un concetto essenziale che nel racconto di questa mostra non dovrebbe per nessuna ragione essere omesso, perché dalla sua comprensione dipende in buona misura la capacità di decifrare il presente e accettarne la tragica complessità.
Nel mondo antico gli stranieri non sono mai stati visti solo ed unicamente come dei nemici. Certo, gli scontri non mancavano e non mancano tutt’oggi. Ma l’arrivo di uno straniero era visto innanzitutto come un’opportunità per conoscere, migliorarsi, arricchirsi, evolversi. Se il Mediterraneo non fosse stato un crocevia di popoli, se ai Greci fosse mancato il desiderio di salpare verso nuovi orizzonti e andare incontro all’ignoto e se non avessero trovato ospitalità, probabilmente la Storia sarebbe stata un’altra e la nostra cultura ne avrebbe profondamente risentito. C’è dunque da imparare dal passato, perché quello che oggi accade al largo delle nostre coste non è poi così diverso da quanto è avvenuto per secoli. Quelli che noi oggi consideriamo stranieri non vogliono toglierci nulla, semmai aggiungere qualcosa a quello che siamo e che potremmo diventare: una grande civiltà multietnica che un giorno, forse, qualcuno vorrà raccontare in una mostra. Noi probabilmente non ci saremo, ma i bambini di oggi potrebbero aver voglia di visitarla e capire fino a che punto la storia si è ripetuta.
La mostra “Pompei e i Greci”, visitabile fino al prossimo 27 novembre 2017 presso la Palestra Grande di Pompei, è curata dal Direttore Generale Soprintendenza Pompei Massimo Osanna e da Carlo Rescigno (Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli) e promossa dalla Soprintendenza Pompei con l’organizzazione di Electa.
Info: www.mostrapompeigreci.it
Pompei e i greci
Il volume accompagna una mostra che narra diacronicamente i rapporti della città vesuviana con il mondo greco, e le sue infinite e variabili fisionomie, dal periodo precedente la sua fondazione, quando sono attestate le prime forme di contatto con genti greche nei villaggi lungo il fiume Sarno e la sua foce. Della città fondata a fine VII secolo a.C. si seguono le sorti a partire da modelli, edifici, culti che si definiscono nel contatto osmotico con i centri della Magna Grecia. La battaglia di Cuma che nel 474 a.C. contrappone i greci di Cuma e Siracusa agli Etruschi altera gli equilibri del golfo: Pompei ne viene travolta e le sue identità si trasformano. Pompei condivide i nuovi linguaggi artistici e di potere che provengono dai regni nati dopo il crollo del sogno di Alessandro Magno. Il mondo greco viene allora ricercato fino a manifestarsi in forme di vero e proprio collezionismo. Le storie greche di Pompei sono raccontate a partire dagli oggetti e dalla loro grammatica: vasi, sculture, pitture, testi e iscrizioni, oggetti della vita quotidiana provenienti da Pompei e dai principali musei nazionali ed europei, reperti che spesso per la prima volta tornano in Italia o vengono documentati in assoluto. In tutto circa 500 pezzi. Un dizionario tematico guida il lettore alla scoperta della Pompei dei Greci.
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Mi chiamo Giovanna e vivo in Puglia. Ho sempre avuto le idee molto chiare: a 8 anni sapevo già che avrei fatto l’archeologa. Per anni mi sono divisa tra gli scavi e montagne di mattoni, tegole e coppi. Chissà, forse sono fatta un po’ di argilla…
Poi, ho capito che dovevo raccontare l’archeologia ai bambini e dare un senso, una prospettiva al mio lavoro. E allora ho scoperto una cosa fondamentale: le storie sono l’unica cosa che ci lega al passato e al futuro e che nessuno potrà mai portarci via.
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