Se non si fosse capito, a noi di Archeokids piace stare sul pezzo. O meglio, crediamo che anche ai più piccoli e proprio a partire dai fatti d’attualità, si possa non solo parlare di archeologia ma anche, in senso lato, di quelle che i grandi barbosi chiamerebbero “politiche culturali”.
E d’altra parte, se il patrimonio è di tutti, è forse ancora di più dei bambini, cittadini di oggi e soprattutto di domani. C’è, a questo proposito, una questione attorno alla quale in questi giorni si è generato un acceso dibattito: l’installazione artistica realizzata al parco archeologico di Santa Maria di Siponto, in provincia di Foggia.
Vi sarà probabilmente capitato di incappare in queste suggestive immagini: la notizia ha avuto un tale impatto che è stata ripresa da tutti i principali media nazionali a inaugurazione appena avvenuta. Il progetto “Dove l’arte ricostruisce il tempo” (di cui l’installazione rappresenta uno degli esiti) è stato promosso dalla soprintendenza per i Beni archeologici della Puglia e dal segretariato regionale del Mibact e finanziato da fondi strutturali del programma operativo interregionale “Attrattori culturali, naturali e del turismo 2007-2013”. Il giovane artista, Edoardo Tresoldi (classe 1987), cui è stata affidata la realizzazione dell’opera, ha ricostruito, per mezzo di una semplice rete metallica elettrosaldata, i volumi originali dell’antica basilica paleocristiana di IV secolo di cui restavano visibili, seppur frammisti a numerose sovrapposizioni datate fino all’età medievale, solo i muri perimetrali e il pavimento a mosaico.
Ho esposto fin qui i “dati” della questione. Mi restano da illustrare semmai le polemiche che sono seguite (trovate una buona sintesi in questo articolo) e che hanno coinvolto professionisti dei beni culturali, storici dell’arte, restauratori, ingegneri, insomma, tutti quelli che a buon titolo – spesso riferito solo a quello di laurea – si sono sentiti chiamati a dire la loro sull’opportunità o meno di andare a intervenire – in maniera secondo loro inutile e perfino dannosa – sui resti delle strutture antiche.
“Chi ha ragione? Chi ha torto?”. La tentazione di applicare una “logica da codice binario” e di classificare ogni cosa secondo parametri precisi, è sempre tanta perché, si sa, ci dà l’illusione di poter controllare meglio ciò che ci accade intorno e di collocarci in una “zona di sicurezza” in cui lo schieramento al quale abbiamo scelto di appartenere ci faccia da corazza. Vorrei provare però a mutare il focus della controversia e a portare la discussione al di là delle prese di posizione prestabilite che, al solito, vedono da un lato i cultori della tutela (per cui meno si interviene sui siti/monumenti, meglio è) dall’altro quelli della valorizzazione (secondo i quali invece è giusto e lecito usare quanti più strumenti possibili a nostra disposizione – arte moderna compresa – per coinvolgere le persone).
L’opera di Tresoldi, è ovvio, non mira a risolvere problemi di conservazione del sito (che restano dunque un aspetto di cui si dovrà in futuro occupare e preoccupare), ma si inserisce a pieno titolo nel piano di valorizzazione di un’area archeologica che necessitava fortemente di un progetto che non solo ne favorisse le visite e la fruizione, ma anche che rendesse i resti – difficilmente leggibili anche a detta di molti professionisti – più comprensibili e addirittura “vivibili”.
Mi spiego meglio e vi svelo un piccolo ma significativo segreto perché mi rendo conto che leggere che un sito sia scarsamente comprensibile anche per noi, potrebbe destare qualche perplessità. Il fatto è che noi archeologi non siamo tuttologi (ci stiamo lavorando, siamo multitasking e essenzialmente “polifunzionali” ma ci manca ancora un processore in grado di farci essere esperti di tutto lo scibile umano) né siamo indovini/sensitivi. Questo per confessarvi che quando vi trasciniamo in giro per siti archeologici, a meno che non abbiamo avuto tempo di leggerci nel dettaglio tutte le pubblicazioni di scavo che li riguardano (e la vedo una possibilità alquanto remota) o che non ci abbiamo scavato noi stessi (e in quel caso armatevi di pazienza), non possiamo rispondere con certezza a tutte le possibili domande che potreste farci.
Possiamo, sì, riconoscere varie tipologie di strutture o di oggetti e intuirne possibili usi e funzioni perché abbiamo l’occhio allenato o per via di un ricordo sfumato di qualche articolo letto chissà quando, ma, per darvi un’idea, io stessa mi sono trovata in visita a siti protostorici (fasi molto lontane da quelle di cui mi occupo) in cui il mio sguardo vagava da una pietra all’altra nel disperato tentativo di individuare il punto che mi veniva indicato. Insomma, un muro (ma il discorso può valere anche per un edificio intero) nel nulla, resta tale: da solo non comunica niente a nessuno.
Eh, già, perché ormai ve lo abbiamo ripetuto alla nausea, né i muri, né tantomeno la terra che scaviamo hanno dei cartellini identificativi che ci dicono tutto quello che c’è da sapere: l’interpretazione ha bisogno di studio e lunghe riflessioni. E sapete altrettanto bene che la vita di una struttura non è quasi mai lineare (creazione – uso – abbandono): il più delle volte si ha a che fare con elementi che, nel corso del tempo, hanno cambiato forma e funzione sulla base dei rapporti con ciò che è stato costruito successivamente, come appunto nel caso della basilica di Siponto (la stessa installazione artistica, paradossalmente, può considerarsi facente parte della “storia” dell’edificio). Si capisce da sé che dunque, ricostruire un sito, significa anche scegliere “cosa” ricostruire (ovvero quale momento della sua lunga vita) oltre che il “come”.
É naturale che se un qualcosa resta per noi incomprensibile, se nemmeno riusciamo ad immaginarlo, la nostra attenzione non possa avere presa su niente che lo riguardi. Avere la possibilità di entrare e muoversi dentro a una basilica di cui, fino a pochi mesi fa, restavano solo muri alti pochi centimetri, è dunque un’esperienza che comunicativamente ed emozionalmente (lo so che a certi puristi questa parola fa venire i brividi, ma senza coinvolgimento emotivo, non potremo mai sperare che i comuni cittadini riconoscano un valore a quello che facciamo) ha un impatto straordinario su chiunque la visiti. É il sogno materializzato di ogni archeologo che gesticolando alla stregua di un mimo, facendo schizzi improvvisati o cercando analogie assurde col presente – nello sforzo simultaneo di essere chiaro, efficace e interessante – si è trovato a dover suscitare nella mente di qualcuno a cui stava spiegando come doveva presentarsi un sito secoli e secoli prima, le immagini di strutture che oggi non esistono più.
A parte questo e a parte gli aspetti teorici e tecnici (che in questo, come in ogni progetto di questo tipo, devono essere assicurati e certificati da professionisti ed esperti), il punto su cui mi preme spendere due ultime parole – perché vedo in quello il punto centrale che sta alla base delle critiche – è che è evidente che fintanto che continueremo ad agire in nome di un conservatorismo che non ammette repliche, elevando anche i più minuscoli lacerti di muro a feticci intoccabili e sacri (a meno di non essere così arditi da voler rischiare di incorrere in accuse di profanazione delle antiche vestigia), continuiamo a remare alla deriva, sempre più lontani dalla possibilità di attribuire valore al nostro patrimonio culturale: un valore che siamo noi, tutti noi cittadini, a dare a esso.
Purtroppo quando si è troppo impegnati a trovare le ragioni per dire “no”, si rischia, tra le altre cose, di non notare i dettagli: tipo che, oltre a usare la rete metallica per riprodurre la struttura in modo che questa non occulti il paesaggio ma dialoghi con esso, l’artista, con la stessa tecnica, ha anche modellato delle persone al suo interno…
Forse per una volta, il significato che l’arte vuole comunicarci, non è poi così oscuro!
8 anni. Prima lezione di Storia. Una maestra speciale che m’incanta parlando della fine di Pompei e degli scavi che l’hanno riportata alla luce insieme alle storie dei suoi antichi abitanti. Quel giorno ho deciso che da grande avrei fatto l’archeologa.
E forse è per via di questo inizio che ancora mi trovo divisa tra la passione del fare ricerca sporcandomi le mani di terra e la consapevolezza che raccontare il nostro mestiere, soprattutto ai più piccoli, lo possa caricare di senso e di futuro.
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