A dispetto di quello che si legge o si sente dire in giro, l’archeologia non è fatta solo di entusiasmanti scoperte che ci fanno venire la pelle d’oca, ma anche di incidenti di percorso e disavventure.
Come quelle capitate al famosissimo Vaso François.
Questo meraviglioso oggetto, che oggi si può ammirare al Museo Archeologico di Firenze, deve il suo nome ad Alessandro François, l’archeologo che lo scoprì nel 1844 a pochi chilometri da Chiusi, in Toscana.
A un osservatore distratto sembrerà solo un “vaso”, ma chi sa guardarlo bene potrebbe definirlo quasi un libro di mitologia con le pagine di ceramica; sì, perché nelle cinque fasce – sei con il piede – in cui è organizzata la superficie del vaso sono infatti rappresentati tanti episodi del mito, alcuni dei quali collegati al personaggio di Achille.
Nella fascia più grande, corrispondente alla spalla del vaso, ecco il corteo degli dei che stanno andando al matrimonio di Peleo e Teti, i futuri genitori di Achille.
Sono tutti elegantemente vestiti e viaggiano due a due, alcuni a piedi, altri su carri tirati da bei cavalli. Solo Dioniso cammina da solo, con un’anfora di vino sulle spalle: un dono per gli sposi? O forse una sua personale scorta?
Sulla porta del palazzo, Peleo dà il benvenuto agli invitati, mentre Teti si intravede dentro la casa con la porta aperta. Da questa immagine possiamo farci una idea sull’aspetto delle ricche case greche dell’antichità, visto che di abitazioni conservate fino ai tetti ne abbiamo davvero pochissime: un edificio con un portico colonnato sul davanti e una porta proprio molto simile alle nostre; gli studiosi pensano infatti che il foro in basso si possa interpretare nientemeno che come una gattaiola, cioè l’apertura per far entrare il micio di casa!
E poi ci sono ancora il racconto dell’agguato di Achille a Troilo, i giochi funebri per Patroclo, l’amico di Achille, la lotta tra i Centauri e la morte di Achille.
Insomma…. una specie di libro a fumetti sulla mitologia greca, in cui le storie prendono vita attraverso tante piccole figure nere appuntite che spiccano sul fondo color arancio insieme ai loro nomi scritti in sottilissime lettere greche. E anche i dettagli, per chi li sa apprezzare, sono davvero impressionanti.
Allo stesso osservatore attento non sfugge però che questo vaso è ricomposto nella vetrina da un bel numero di frammenti, tutti ben accostati gli uni agli altri, con solo alcune parti mancanti.
È normale – penserete voi – i vasi antichi spesso ci arrivano rotti. Ma perché? Spesso perché quando entrano nella stratificazione del terreno sono già rotti (vengono buttati via), ma non è questo il caso.
Il nostro vaso François venne scoperto all’interno di una tomba, dove era stato messo come oggetto di corredo del defunto: un bellissimo vaso prodotto ad Atene, da dove era arrivato fino a Chiusi in quella che all’epoca si chiamava Etruria; qui qualche ricco signore etrusco lo aveva acquistato e al momento della morte aveva disposto che fosse sepolto insieme a lui.
Per essere precisi il nostro vaso è un “cratere”, cioè un particolare tipo di contenitore che i Greci utilizzavano durante il banchetto per mescolare il vino: per questo ha una bocca larga e una pancia bella grande, perché dal cratere gli invitati potevano poi prendere il vino con le proprie coppe.
Al signore etrusco piaceva forse essere ricordato come una persona che viveva secondo le usanze dei Greci e si era fatto quindi seppellire con il suo cratere attico, cioè arrivato dall’Attica, la regione della Grecia in cui si trova Atene. Lo sappiamo con certezza perché questo è un vaso firmato da due artisti greci: Ergotimos, il vasaio e Kleitias, il pittore, che lo realizzarono intorno al 570 a.C., cioè più o meno 2600 anni fa…!
In quella tomba insomma il vaso ci entrò sicuramente intero e faceva proprio la sua bella figura tra tutte le ricchezze del signore etrusco. Per secoli rimase là dentro, fin quando un giorno la tomba venne scoperta da alcuni cercatori di tesori: entrando probabilmente nemmeno lo notarono, perché il loro obiettivo era trovare oggetti molto preziosi da rivendere, meglio se in oro e pietre preziose. E così a forza di frugare nella tomba, lo urtarono e il vaso si ruppe. I frammenti rimasero lì dove erano caduti, fino a quando Alessandro François li trovò e intuendo la loro bellezza, anche se sporchi di terra, li consegnò a un restauratore, perché provasse a ricomporre la forma del vaso.
Questi però si rese conto che purtroppo i frammenti che aveva tra le mani non bastavano, anzi… attaccandoli tutti insieme, si riusciva a ricostruire a malapena un terzo dell’intera superficie.
Alessandro François non si scoraggiò e anzi, dopo qualche mese intraprese una nuova campagna di scavo per vedere se per caso non potessero trovarsi altri pezzi del vaso, ma il risultato non fu quello sperato: solo 5 nuovi frammenti.
Il vaso nel frattempo però era già stato incollato, integrando le parti mancanti con un impasto neutro: fu quindi necessario smontare alcuni pezzi per aggiungere i nuovi. E per fare questa operazione qualcuno dei frammenti venne adattato in maniera un po’ goffa, pur di aumentare la superficie decorata del vaso.
Oggi quel risultato sarebbe stato molto criticato, ma allora non ci si badò: era talmente bello che qualche piccola imperfezione non si sarebbe notata!
E cosi, una volta ricomposto, venne esposto nell’antenato dell’attuale Museo Archeologico e cominciò la sua vita di reperto dentro una vetrina in cui le persone potevano ammirare le bellissime rappresentazioni di quello che per tutti divenne presto “il vaso François”.
Tante volte venne preso in mano, forse spolverato, nuovamente restaurato, spostato con gli altri reperti in una nuova sede del Museo, ma resistette… era stato incollato proprio bene!
Il vaso forse si annoiava anche un po’ dentro la sua vetrina; magari ogni tanto quei frammenti incollati un po’ maldestramente gli prudevano, come le vecchie ferite quando cambia il tempo, ma oramai si era abituato alle espressioni di stupore dei visitatori e agli occhi rapiti degli studiosi che ogni volta, osservandolo, ne scoprivano un nuovo particolare.
Insomma, stare al centro dell’attenzione lo faceva sentire importante.
Solo un giorno in tutta la sua lunga vita avrebbe desiderato non essere proprio al centro di quella grande sala del Museo.
Sì, perché il nostro vaso ebbe la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, ma del resto… come scappare se sei dentro una vetrina?
No, nessun terremoto e nemmeno, per fortuna, nessuna bomba.
Una lite, una furiosa lite.
È una fresca giornata di settembre quando il nostro vaso sente avvicinarsi voci sempre più alte e concitate: alla fine arrivano in sala due custodi che litigano animatamente; i toni salgono e anche la rabbia: uno dei due afferra uno sgabello di legno e lo scaglia contro il collega. Ma questi si sposta e lo sgabello si schianta contro la sua vetrina.
Il cratere va in frantumi, ancora una volta: in 638 pezzi per la precisione.
Immaginate la confusione che si scatena subito dopo. Si è così disperati per la sorte del vaso che non ci si accorge di un turista che di soppiatto si mette in tasca uno dei frammenti.
È il 9 settembre 1900.
I pezzi del cratere vengono raccolti dal pavimento della stanza e affidati di nuovo a un restauratore che pazientemente li rimette tutti insieme, sistemando nella posizione corretta anche quei frammenti che nel primo restauro erano stati incollati un po’ forzatamente… e anche il frammento rubato che venne restituito poco dopo.
Dopo una lunga convalescenza il vaso François cominciò quindi la sua nuova vita: essere rotto alla fine gli aveva permesso di essere ben restaurato e poteva tornare a mostrarsi così in tutto lo splendore con cui Ergotimos e Kleitias lo avevano pensato.
Ma ogni tanto dalla sua vetrina un’occhiataccia a quello sgabello che lo colpì gliela lancia, perché lo sgabello oggi, ironia della sorte, è esposto accanto a lui.
Vivo a Siena, una città in cui è impossibile non essere circondati dalla storia. Non volevo fare l’archeologa fin da piccola, ma credo di averlo capito al momento giusto.
Ho legato il mio cuore a siti speciali in cui ho avuto e ho la fortuna di lavorare e sono un discreto topo di biblioteca. Ma una delle cose che preferisco fare è condividere le storie che leggo nella terra con i bambini: occhi trasparenti e domande spontanee mettono a nudo l’archeologia e non ammettono risposte vaghe!
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