Tra i tanti luoghi comuni che ruotano attorno al mondo dell’archeologia, uno dei principali e più difficili da sfatare è senza ombra di dubbio rappresentato proprio dalla figura stessa dell’archeologo. Inutile negarlo o girarci intorno: Indiana Jones e Lara Croft con il loro aspetto e le loro imprese avventurose incarnano ormai uno stereotipo troppo affascinante per non poter essere preso in considerazione.
Se già ci leggete da un po’ avrete capito che a noi archeologi – che questo lavoro lo facciamo quotidianamente – l’accostamento va un po’ stretto: ci può sì capitare di viaggiare e magari di trovarci di fronte a scoperte emozionanti, ma in fin dei conti il nostro è un mestiere molto più “normale” di quanto il cinema o i videogiochi possano rappresentare.
Eppure… Eppure bisogna ammettere che se guardiamo ai nostri predecessori, c’è stato eccome un tempo in cui la figura dell’archeologo era ancora così ben poco definita e ambigua che effettivamente si prestava ad accogliere su sé un’aura romantica, misteriosa e avventurosa. Erano gli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento e l’archeologia era più che altro un diletto per ricchi, un’attività collaterale alla ben più seria attività militare e coloniale che coinvolgeva le principali potenze europee del tempo, una passione insolita e stravagante in cui investire parte del proprio denaro nel tentativo di stupire poi gli ospiti a cena con storie infarcite di particolari straordinari e con oggetti insoliti ed esotici recuperati qua e là per il mondo. Insomma, un modo di intendere l’archeologia molto diverso da come lo si intende oggigiorno, un modo che ci fa quasi storcere il naso.
Inutile dire che l’interesse per un simile “passatempo” – che richiedeva un discreto grado di libertà su tutti i fronti – era ovviamente riservato agli uomini. Vi basti un nome fra tutti: Thomas Edward Lawrence, archeologo, militare e agente segreto britannico, meglio conosciuto (e desideroso di farsi conoscere) – non a caso – con lo pseudonimo di Lawrence d’Arabia.
Potete dunque immaginarvi il mio stupore quando qualche anno fa mi sono imbattuta per caso nelle fotografie di gruppo di alcuni diplomatici britannici degli inizi del secolo scorso in Medio Oriente, e tra le piume, le uniformi e le pose austere da colonizzatori, ho scorto una figura femminile. Un corpo sottile, una testa di capelli rigogliosa, vestiti di mussole fluttuanti e cappelli tipici della Londra degli anni Venti… con piramidi, accampamenti nel deserto e piramidi egizie sullo sfondo!
Quella donna, ho scoperto poi, essere Gertrude Margaret Lowthian Bell, una delle più brillanti studentesse della prestigiosa Università di Oxford. Instancabile viaggiatrice, ben presto si innamora di quella terra aspra e affascinante che ai tempi veniva genericamente chiamata Arabia: le sue genti la incuriosiscono a tal punto da imparare la loro lingua e i loro usi, esplora i siti archeologici della regione e si spinge con le carovane fin dentro al cuore del deserto. Non ci si deve stupire dunque se questa sua intima conoscenza di quei territori e delle loro tribù la resero un target degno d’interesse per i Servizi Segreti britannici che infatti la reclutarono tra i loro ranghi durante la Prima Guerra Mondiale. Una spia, già. Come vi dicevo, essere un archeologo a quei tempi non era una vera e propria professione, o almeno, quando lo era, i suoi confini erano decisamente ambigui…
Al termine della guerra, Gertrude si concentrò sul futuro della Mesopotamia; la sua influenza fu talmente forte da risultare decisiva per l’incoronazione di Faisal come nuovo re dell’Iraq. Ve lo immaginate? Una donna, occidentale, negli anni Venti del Novecento che, da pari a pari, tratta di ogni sorta di affari coi rappresentanti politici più influenti del Medio Oriente. Doveva davvero essere una donna eccezionale, non credete?
Il suo principale interesse rimase però sempre l’archeologia. Si deve proprio a lei, ad esempio, la prima organizzazione del Museo Archeologico di Baghdad (dove ancora oggi c’è chi la ricorda con deferenza) col principale – e, per i tempi, inusuale – intento di preservare la cultura e la storia irachena in un luogo specifico che permettesse di mantenere le testimonianze materiali (comprese quelle che lei stessa aveva contribuito a riportare alla luce durante alcuni scavi) nel loro luogo d’origine.
Di Gertrude Bell restano oggi moltissimi scritti sotto forma di lettere, diari, varie corrispondenze e un numero incredibile di fotografie (circa 7000) scattate durante i suoi continui viaggi in Medio Oriente. A distanza di un secolo, quegli scatti in bianco e nero riescono ancora a raccontare con una forza incredibile tanto la bellezza e l’importanza di un mondo complesso e ricchissimo di testimonianze storiche e archeologiche, quanto la potenza della personalità di colei che le ha scattate. E nel vedere quel che ha visto sembra anche di riuscire a cogliere quel desiderio di conoscenza inarginabile che ha caratterizzato l’intera sua esistenza e che l’ha resa così eccezionale.
Qualche anno fa, un bellissimo progetto dell’Università di Newcastle ha permesso di acquisire, digitalizzare e rendere fruibile gran parte di questo materiale. Si è venuta così a creare una risorsa importantissima sia per gli specialisti che per chiunque sia semplicemente curioso di scoprire i dettagli di una documentazione così unica.
Pochi giorni fa sono tornata per l’ennesima volta a spulciare quell’archivio e con mia grande sorpresa, in fondo alla pagina principale, ho notato qualcosa che prima non c’era: “Gertrude Bell Comics”, campeggiava al centro di un riquadro celeste…
Ed eccolo lì: un fumetto interattivo (nelle tavole sono inseriti dei bottoni che rimandano ai documenti d’archivio che hanno ispirato le scene riportate) in cui si narrano le principali vicende dell’incredibile vita di Miss Bell. Un ulteriore strumento pensato dai ricercatori di Newcastle, stavolta particolarmente indicato e coinvolgente anche per i bambini, per invogliare a conoscere l’importantissimo contributo (come donna e come studiosa) e gli attualissimi insegnamenti (da ritrovarsi soprattutto nel suo approccio diplomatico agli “altri” e nella convinzione che l’archeologia possa essere un mezzo valido per restituire identità e dignità a un popolo) che questa donna ci ha lasciato, raccontandoci quanto anche il deserto può essere rigoglioso. Un’eredità – materiale e immateriale – oggi più che mai preziosissima nella quale vi invito a perdervi.
8 anni. Prima lezione di Storia. Una maestra speciale che m’incanta parlando della fine di Pompei e degli scavi che l’hanno riportata alla luce insieme alle storie dei suoi antichi abitanti. Quel giorno ho deciso che da grande avrei fatto l’archeologa.
E forse è per via di questo inizio che ancora mi trovo divisa tra la passione del fare ricerca sporcandomi le mani di terra e la consapevolezza che raccontare il nostro mestiere, soprattutto ai più piccoli, lo possa caricare di senso e di futuro.
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