Anno Domini 1350. L’Europa è da poco uscita dall’incubo della peste nera, che ne ha decimato la popolazione, e gran parte degli Stati europei sono impegnati in una guerra senza fine.
Disordine, carestia e violenze regnano sovrane un po’ ovunque. Le città hanno un aspetto desolato e sono tenute sotto scacco da bande di soldati e da briganti senza scrupoli.
Intanto, centinaia di pellegrini partono da ogni angolo d’Europa per raggiungere Roma; cercano reliquie, preziose più dell’oro, non solo perché garanzia di buona salute ma soprattutto perché promessa di fama e ricchezza.
È in questo clima di generale decadenza e di superstiziosa devozione che è ambientata la vicenda raccontata dalla scrittrice Catherine Gilberte Murdock nel libro Storia di Boy, Giunti Editore, un romanzo che di sicurò piacerà molto agli appassionati – adulti e bambini – di storie medievali.
Protagonisti del romanzo sono un ragazzo dal “volto di un angelo e il corpo di un demonio” che tutti chiamano Boy e un misterioso pellegrino che puzza di zolfo, Secundus.
Boy lavora come guardiano di pecore nella proprietà di Sir Jacques; nessuno conosce esattamente la sua storia, da dove venga e chi fossero i suoi genitori. Viene assai spesso preso in giro per la gobba enorme che nasconde sotto la veste (ma si tratta davvero di una gobba?) ed è per questo che ama starsene per conto proprio, in compagnia degli animali che ama e di cui sa decifrare le voci.
Poi un giorno il misterioso pellegrino Secundus giunge al maniero e decide di portare Boy con sé; ha bisogno di un ragazzo poco esigente e bravo ad arrampicarsi che lo accompagni in una delicata e importantissima missione e Boy è perfetto. Ma cosa cerca Secundus?
«Sto cercando qualcosa, Ragazzo. Cerco sette oggetti. Sette reliquie molto preziose. Sette reliquie che mi salveranno». Mi mostrò il libro, perché vedessi una pagina scritta. «Costola dente pollice stinco» recitò. «Polvere teschio tomba».
È l’inizio di un lungo viaggio, pieno di ostacoli ed imprevisti, che poterà Boy e Secundus dalla Francia a Roma, direttamente sulla tomba di San Pietro. Entrambi, per ragioni diverse che si disvelano pian piano nel corso del libro, hanno bisogno di quelle reliquie e ciascuno aiuta l’altro a raggiungere il suo obiettivo, che altro non è poi se non ritrovarsi e far pace con sé stessi.
Quello che colpisce di questo romanzo è la capacità dell’autrice di mescolare, con sorprendente abilità, il dato fantastico a quello storico, rendendo ancor più avvincente la trama e talvolta difficile scindere i due piani.
Il giovane lettore moderno faticherà forse non poco a capire quanto valore avesse a quei tempi il culto delle reliquie dei Santi, a tal punto da innescare un commercio e un traffico illegale di oggetti e resti venerati attorno a cui ruotavano le attenzioni di monasteri, sovrani, monaci e di semplici fedeli. Eppure, basta visitare qualche luogo di culto nostrano affollato di pellegrini e recarsi sulla tomba del santo di turno per farsi un’idea, di fronte alla grande varietà di ex-voto lasciati sul sepolcro, di quanto feticistica possa essere talvolta la fede umana.
Il libro offre uno spaccato realistico della società dell’epoca, provata dalla peste e dalla malattia, avvilita dalla povertà e dal degrado, minacciata dalla furia di briganti e ciò nonostante pervasa da un sentimento religioso profondo e diffuso, al limite del superstizioso. Ma è proprio questo il fascino del Medioevo, quello che ha avvinto scrittori e poeti di tutti i tempi e che spinge ancora oggi, noi lettori, ad addentrarci nella “selva oscura” di quei secoli per coglierne gli inconfessabili segreti e lasciarsi suggestionare dalla sua potenza immaginifica.
Anche la veste grafica del volume sa di antico, con la sovracoperta a proteggere la copertina rigida e le illustrazioni di Ian Schoenherr che evocano alla perfezione lo stile delle miniature medievali.
Insomma, direi che si tratta della lettura giusta per questo autunno incerto e carico di tensione, attraversato dal desiderio diffuso di lasciarsi alle spalle la pandemia e tornare alla normalità.
Mi chiamo Giovanna e vivo in Puglia. Ho sempre avuto le idee molto chiare: a 8 anni sapevo già che avrei fatto l’archeologa. Per anni mi sono divisa tra gli scavi e montagne di mattoni, tegole e coppi. Chissà, forse sono fatta un po’ di argilla…
Poi, ho capito che dovevo raccontare l’archeologia ai bambini e dare un senso, una prospettiva al mio lavoro. E allora ho scoperto una cosa fondamentale: le storie sono l’unica cosa che ci lega al passato e al futuro e che nessuno potrà mai portarci via.
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