E’ proprio vero che l’archeologia è una lente per guardare il mondo, anche se fai una passeggiata in un posto che di “archeologico” non ha proprio niente.
In queste settimane, i campi intorno a casa mia, nella campagna senese, stanno diventando tutti dorati; il grano è quasi pronto per la mietitura e tra pochi giorni cominceranno a viaggiare per le nostre strade bianche quelle grandi macchine, le mietitrebbie, che vanno e vengono dai campi.
Nell’aria si spanderà quell’odore polveroso e caldo che sa di grano.
Lo stesso che l’uomo sente da sempre, da quando ha imparato a coltivare questo meraviglioso chicco. Ecco qualcosa che davvero mi mette accanto, nella linea del tempo, a un contadino egiziano di qualche migliaio di anni fa: stessi colori, stessi odori, stesse sensazioni tattili.
Tutti noi abbiamo studiato, fin dalla scuola primaria, la coltivazione del grano lungo le rive del Nilo, resa miracolosa dallo strato di limo fertilissimo che le inondazioni del fiume lasciavano nei campi; i terreni, così ammorbiditi e nutriti, erano perfetti, perché tutta l’umidità possibile vi potesse penetrare e far crescere le piantine e poi le spighe con i loro preziosi chicchi.
I faraoni facevano scrivere che veneravano il dio del frumento per dire che sotto il loro regno il popolo non aveva sofferto la fame. Dal grano dipendeva la vita, perché dal semplice impasto della farina con l’acqua (e poi il lievito) deriva l’alimento che è alla base della cultura alimentare del Mediterraneo, il pane.
Da quando l’uomo ha imparato a fare il pane, non ha mai smesso di mangiarlo, nonostante che in alcune parti del mondo la varietà e l’abbondanza di cibo, abbiano messo a disposizione del nostro palato ben altre squisite prelibatezze.
Vuoi mettere il profumo del pane croccante che esce dalle panetterie al mattino? Io non riesco quasi mai, quando compro il pane, a portarlo a casa intero, senza averne staccato nemmeno un pezzettino di crosta… eccone qua la prova!
I Romani se ne accorsero subito che la valle del Nilo era un vero e proprio tesoro e fecero di tutto per prendersi l’Egitto che non a caso veniva chiamato “il granaio di Roma”, perché da solo riforniva la capitale di oltre la metà del grano che vi giungeva anche dalle altre province.
E a Roma sì che c’era bisogno di grano!
Veniva addirittura distribuito gratuitamente! Precise leggi, dette proprio frumentarie, a partire dal II secolo a.C., regolavano questa pratica, stabilendo ad esempio chi dei cittadini romani aveva diritto a ricevere grano. All’epoca di Augusto questa cifra fu fissata a 200.000 persone… !
I plebei, ovvero i cittadini appartenenti alla fascia più bassa della popolazione romana, dovevano recarsi nella Porticus Minucia Frumentaria, uno spazio dedicato appositamente alla distribuzione del frumento, ed esibire una tessera frumentaria che dava loro diritto a ricevere dallo Stato romano cinque moggi equivalenti a circa 34 chilogrammi di grano ogni mese.
Queste operazioni erano controllate dal prefetto dell’Annona, che prendeva il nome dalla divinità a cui erano consacrati i magazzini del grano pubblico; il nome di Annona, che garantiva i buoni raccolti di cereali, è collegato alla parola “annus” proprio perché i raccolti erano annuali.
Il pane nelle città romane veniva preparato in casa ma era anche venduto in botteghe chiamate pistrina, cioè forni; se volete vederne uno che sembra ancora in piena attività, ecco qua la panetteria di N. Popidius Priscus della Regio VII a Pompei.
Qui gli archeologi hanno potuto ricostruire tutto il ciclo produttivo del pane, dalla macinazione
della farina, che avveniva con macine in pietra a trazione animale, alla cottura delle forme di pane che poi venivano vendute nelle botteghe lungo le strade.
I fornai potevano raggiungere anche un discreto benessere economico, come dimostra il monumento funerario del fornaio Eurisace a Roma, fuori da Porta Maggiore, che lavorava per lo Stato.
Il grano era quindi una risorsa per tutti coloro che avevano a che fare con uno dei passaggi del ciclo produttivo del pane, dai ricchi proprietari terrieri (la ricchezza nel mondo antico si basava soprattutto sulla proprietà della terra), ai fornai che trasformavano il grano in farina e vendevano il pane. Tutte le città dell’impero e del Mediterraneo restituiscono quindi tracce della lavorazione dei preziosi chicchi dorati, sia nelle case private, nella forma di piccole macine in pietra manuali e forni per la cottura del pane, che nelle strutture pubbliche degli enormi granai.
Tuttavia, per entrare nel vivo della quotidianità, è ancora Pompei a venirci in aiuto: la cenere che l’ha sepolta ha infatti addirittuta conservato fino a noi alcune forme di pane, un po’ carbonizzato certo, ma molto molto simile al nostro.
Questo qua viene, insieme a molti altri, dal panificio di un certo Modestus, nella Regio VII di Pompei; le analisi che sono state svolte su di esso, hanno rivelato che in realtà è un pane fatto con farina di farro, la farrina per l’appunto. No, non ho scritto male!! … Si chiamava proprio così la polvere ottenuta dalla macinazione del farro che poi è passata a indicare tutti i cerali macinati.
Il pane è bello gonfio e se non fosse per il colore, verrebbe voglia di andare lì con un dito e testarne la morbidezza; è “inciso” in otto spicchi, forse per poterlo tagliare meglio e ha anche il marchio di produzione del laboratorio che lo ha prodotto!
Non è emozionante avere tra le mani un pane che ha 2000 anni?
Certo non lo si può mangiare, ma lo possiamo studiare; per essere precisi, meglio di noi archeologi possono farlo i paleobotanici e gli archeobotanici che ricostruiscono dallo studio dei resti vegetali antichi l’ambiente naturale di epoche lontane e che, sempre attraverso le piante, sono in grado di risalire ai cibi più presenti nell’alimentazione delle civiltà del passato.
Questi studi, oltre a darci importanti informazioni su quali fossero le specie vegetali esistenti in un territorio in una determinata epoca o su quali cibi consumassero i nostri antenati, possono dare vita anche a esperienze davvero divertenti.
Come quella che è in corso al Parco della Sterpaia, nel Comune di Piombino e che vede protagonisti la Parchi Val di Cornia, l’Università di Firenze, la Provincia di Livorno, i Comuni del territorio e i produttori del Biologico della Toscana.
Oltre che un luogo di vero incanto, il Parco della Sterpaia è divenuto oggi anche luogo di ricerca e sperimentazione: in una parte di esso infatti si sono seminati alcuni grani antichi per cercare di produrre alla maniera dei nostri antenati.
Dai cereali così coltivati si ottengono infatti prodotti come farine e pasta con ottimi valori nutrizionali e molto digeribili anche per bambini e persone con intolleranze… e si possono acquistare presso i parchi della Val di Cornia!
Ancora una volta, dal passato c’è sempre da imparare! E se ce lo hai dentro, anche una passeggiata in un campo di grano si trasforma in un viaggio nella storia, partito dall’Egitto e arrivato fino al Parco della Sterpaia.
Vivo a Siena, una città in cui è impossibile non essere circondati dalla storia. Non volevo fare l’archeologa fin da piccola, ma credo di averlo capito al momento giusto.
Ho legato il mio cuore a siti speciali in cui ho avuto e ho la fortuna di lavorare e sono un discreto topo di biblioteca. Ma una delle cose che preferisco fare è condividere le storie che leggo nella terra con i bambini: occhi trasparenti e domande spontanee mettono a nudo l’archeologia e non ammettono risposte vaghe!
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