Il giorno prima della partenza per uno scavo la mia stanza è nel caos.
Si, lo so, ho una certa età e dovrei esserci abituata, ma ogni volta si ripete la stessa storia che
finisce a notte fonda con me che cerco ancora di infilare qualche ultima cosa in borse già piene.
Diciamo che non sono abituata a viaggiare leggera.
E questo vale soprattutto quando devo partire non per una vacanza, ma per lavorare.
Non vi sto a dire che cosa succede all’Università il giorno che carichiamo il nostro furgone:
praticamente svuotiamo armadi e stanze per ricrearci un mondo parallelo dove andremo a scavare.
Perché fare oggi l’archeologo, non è solo “andare a scavare”, lo abbiamo imparato leggendo le pagine di Archeostorie.
La nostra professione si è sfaccettata in tante diverse attività, e anche la figura dell’archeologo da campo è chiamato a differenti lavori, ognuno dei quali richiede un suo set minimo di oggetti. E ciascuno di noi, spesso, svolge più di un’attività contemporaneamente!
Ecco perché si moltiplicano i bagagli!
Partiamo con i fondamentali:
Scarpe anti-infortunistiche, queste proprio ci vogliono, lo dice la legge, che assimila i cantieri
archeologici a quelli edili… e pertanto, anche se sono brutte, spesso scomode e i piedi alla fine della giornata sono gonfi come due panini all’olio, vanno messe. Hanno una lama di acciaio nella suola che impedisce il perforamento causato ad esempio da un grosso ferro e la punta rinforzata per proteggere il piede da schiacciamenti e urti.
Guanti, ci vogliono anche questi, lo dice sempre la legge. All’inizio li usavo malvolentieri, ora che mi sono abituata, non posso farne a meno: si ha una presa migliore con gli arnesi, soprattutto quelli pesanti come la pala e il piccone e proteggono le mani dai graffi e dai piccoli urti con oggetti appuntiti.
Cappello, di cotone se lo scavo si svolge in estate, di lana se siamo in inverno. In entrambi i casi
fondamentale per proteggere il neurone che deve girare, e molto velocemente, per capire, interpretare, progettare, organizzare il lavoro proprio e, a volte, quello degli altri.
Pantaloni, possibilmente lunghi e comodi, meglio se con tante tante tasche: ci ho fatto un po’ a pugni, ma anche qui, alla fine mi sono addomesticata, soprattutto perché stare molto inginocchiati con i bermuda provoca “un male canissimo” (cit.), ci si graffiano le gambe con l’erba a volte non bassa e, cosa di non minore importanza, si preclude alle ragazze la possibilità di indossare una gonna: il segno del calzino non se ne andrà infatti per mesi!
Scherzi a parte, lavorare protetti aiuta a lavorare meglio, ci si muove con sicurezza senza preoccuparci, come dentro una specie di guscio.
Se si hanno tante tasche poi, è una vera pacchia perché quelle poche cose che ti servono sicuramente – la trowel, almeno un pennello, una penna – sono sempre con te e non devi nemmeno alzarti a prenderle o portartele dietro quando ti sposti da una parte all’altra dello scavo.
Magliette, qui gli archeologi, a volte, toccano vette insuperabili! Nel senso che spesso sui cantieri si vedono capi di abbigliamento tolti dalla circolazione almeno 10 anni fa: magliette rovinate da lavaggi aggressivi, magliette che appartengono alla precedente vita di alcuni di noi, rivelando insospettabili frequentazioni di discoteche che contrastano con l’immagine di compassati e seri studiosi dell’antico, magliette che vengono dalle attività che ognuno di noi svolge nel proprio tempo libero, magliette con personaggi dei fumetti di quando eravamo ragazzini che ad alcuni vanno ancora bene… beati loro!
Però ultimamente, almeno a Vignale, abbiamo cercato di assumere un aspetto più professionale e abbiamo magliette tutte uguali, di diversi tipi, ma tutte riconducibili al nostro progetto di archeologia pubblica. Devo riconoscere che ci danno un certo tono e ci identificano come gruppo che è molto importante per noi e anche per chi ci vede da fuori.
Tanti anni fa, durante uno dei miei primi scavi, durante uno scambio di idee proprio sull’abbigliamento degli archeologi e in particolare delle archeologhe, il direttore dello scavo ci rivolse questa semplice domanda: “Come pensate che il nostro lavoro possa essere preso sul serio da qualcuno che ti vede lavorare in pantaloncini corti e bikini? Così di solito si va in spiaggia, non a lavorare”.
Parole sante, era proprio vero. Un abbigliamento adeguato, anche simpatico ma rispettoso del lavoro, è la prima carta di presentazione che ci giochiamo con chi si affaccia alla nostra recinzione.
K-way perché sei lì che lavori preso dal sacro fuoco dell’archeologia, alzi gli occhi, guardi le nuvole nere che si avvicinano, ma non fai in tempo nemmeno a dirlo che sei già zuppo.
Fondamentali, soprattutto in certi siti del Mediterraneo dalla luce abbagliante, un paio di occhiali da sole perché riuscire a tenere gli occhi aperti tutto il giorno è meglio!
Alla fine però devo dire che con questa parte del bagaglio non me la cavo male. Ho un settore dell’armadio dedicato all’abbigliamento da lavoro e prendo quasi sempre le stesse cose (a parte la felpa e il k-way che, per esempio, a Creta non servono…).
Dove invece mi imbambolo un po’ è davanti agli attrezzi che accumulo in maniera quasi seriale nella mia valigetta azzurra, che tanti anni fa è stata anche immortalata per un articolo su Archeo insieme a quella della mia collega Silvia.
Ogni volta è un miracolo come io riesca a chiuderla infilandoci sempre qualcosa in più!
Prima di tutto, qui dentro, ci sono le mie trowels. Tutte.
Anche quelle ormai ridotte allo stato di cucchiaino che non hanno più niente dello strumento tagliente e performante di una volta: ma io me le porto lo stesso. Nostalgia? Feticismo? No, credo di no… dico a me stessa che mi servono con i bambini. Preferisco che usino strumenti non pericolosi e le mie cazzuole certo non lo sono più! E poi la loro differente usura mi serve per raccontare il nostro mestiere che è anche duro e faticoso, tanto da consumare perfino una lama di acciaio.
Poi vengono i pennelli, quasi tutti gialli e di diverse grandezze, perché l’ossessione della pulizia è buona compagna di ogni archeologo. Pennelli più rigidi per le superfici più dure, più morbidi, piatti… ce ne sono di diversi tipi.
A ruota dietro i pennelli, arrivano palettine e scopette.
Possibilmente colorate, ne ho ormai un set: queste in particolare le compro in un supermercato cretese, nel paese vicino al sito di Gortina… sciocche come oggetti, ma utilissime per raccogliere la terra, anche pochi granelli negli spazi stretti, quando la pulizia deve essere proprio impeccabile.
Poi ci sono le spatole, almeno due, per i lavori di precisione: hanno una lama molto più sottile della trowel e sono flessibili. Sono molto utili per piccoli lavori di pulizia o anche per primi interventi di restauro che sono a volte fondamentali per mettere in sicurezza pavimenti o intonaci che altrimenti potrebbero andare perduti.
Un cucchiaio da cucina per togliere la terra da piccole cavità in cui non entra nemmeno la trowel.
Mi porto ancora dietro tutto (o quasi) il necessario per il disegno, anche se adesso a mano si disegna sempre meno.
Però è meglio essere attrezzati, in caso di un malaugurato guasto ai nostri strumenti tecnologici si deve essere in grado di disegnare e rilevare qualunque cosa emerga dallo scavo: quindi cordino, filo a piombo, rotella metrica, metro a stecca, compasso, matite di diversa durezza, gomme e temperini, scalimetro, una piccola livella, puntine da disegno, mollette per fissare i fogli.
Poi pettine e calibro per disegnare i cocci.
A questo punto avrete capito che la mia più che una valigetta è una borsa di Mary Poppins!
Ma c’é ancora spazio per un piccolo kit di materiale per il restauro d’emergenza perché nello scavo si può presentare la necessità di un piccolo intervento di primo soccorso per qualche
piccolo manufatto di ceramica, metallo o osso che deve essere rimosso con cura o di qualche operazione di pulizia più specifica, per esempio durante lo scavo di una stanza con intonaci crollati o di un mosaico pavimentale.
Ecco che allora mi servono stecchini di legno tipo quelli che si usano per gli spiedini, un bisturi metallico, qualche ferretto, un piccolo scalpellino da legno, del cotone, delle garze, dei pennelli piccoli, un nebulizzatore per l’acqua.
Ma i bagagli dell’archeologo non sono ancora completi: possiamo forse pensare oggi di partire per uno scavo senza un computer? O magari un tablet per dare notizia in tempo reale del nostro lavoro sui social network? E poi quaderni, blocchetti, matite…
In una borsa a parte, sempre la macchina fotografica per documentare “cose” e, soprattutto idee e ipotesi di lavoro.
Negli spazi rimasti liberi, pochissimi e piccoli a questo punto, infilo sempre anche un metrino per fotografare i reperti e una lente di ingrandimento perché se trovo una moneta potrei non riuscire a leggere a occhio nudo che cosa c’è scritto sopra e… so di non poter aspettare di tornare in laboratorio al microscopio!
Se poi lavori a Vignale in una tasca devi assolutamente ricordare di infilare uno spray repellente per le zanzare e uno stick per le punture che loro comunque ti daranno!
E poi ci sono i libri, per fortuna oggi in gran parte sostituibili con estratti in formato pdf o e.book (prima ci voleva un trolley a parte!)
Non è vero che quando “sei grande” non hai più bisogno dei tuoi sacri testi, i manuali su cui hai studiato tutto ciò che dell’archeologia si può imparare dai libri: i buoni libri andrebbero riletti in diversi momenti della nostra vita professionale, perché più letture saldano una conoscenza profonda.
Ok, non vi confesserò che cosa mi porto sul fondo della valigia (ma forse qualcuno lo avrà intravisto in una foto…)!
Direi che ci siamo, mi pare di aver preso tutto.
Se riesco a tirare le cerniere lampo e chiudere, il gioco è fatto.
Incastro tutto in macchina e parto alla volta di Vignale, portandomi nelle mie borse e valigette, tante cose, ma soprattutto l’entusiasmo per una nuova avventura umana e professionale.
Vivo a Siena, una città in cui è impossibile non essere circondati dalla storia. Non volevo fare l’archeologa fin da piccola, ma credo di averlo capito al momento giusto.
Ho legato il mio cuore a siti speciali in cui ho avuto e ho la fortuna di lavorare e sono un discreto topo di biblioteca. Ma una delle cose che preferisco fare è condividere le storie che leggo nella terra con i bambini: occhi trasparenti e domande spontanee mettono a nudo l’archeologia e non ammettono risposte vaghe!
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