Che cos’è un museo? Prima di iniziare a scrivere il post di oggi, mi sono fermata un attimo e di fronte alla pagina bianca sullo schermo del computer ho provato a rifletterci un po’.
Non è che non lo sappia, anche perché sino ad oggi di musei nei ho visitati diversi. Il problema è semmai che come tanti sono abituata a concepire il museo come uno spazio per gli occhi più che per la mente, un luogo in cui fare incetta di visioni e forme e colori al punto da sentirsi così frastornati all’uscita, da non aver più voglia di nulla, neanche di pensare. Un luogo in cui raramente c’è posto per il tempo lento della riflessione e quello prezioso della condivisione. Dei musei sappiamo benissimo soprattutto ciò che, visitandoli, non possiamo fare: toccare, avvicinarci troppo all’oggetto o alla vetrina, fotografare, correre, parlare ad alta voce, giocare, fare domande… Insomma, degli spazi ad azione limitata, dove ci sono troppe regole e in cui la creatività paradossalmente è bandita.
Provate a pensare cosa accadrebbe se in museo d’arte si accendesse una discussione tra i visitatori e ciascuno esprimesse ciò che prova davanti ad un dipinto, o se in un museo archeologico ai bambini all’ingresso venissero dati fogli e matite e venisse loro chiesto di disegnare un oggetto a scelta e questi disegni venissero poi messi in mostra accanto ai reperti…
Nel frattempo, mia nipote, che ha dodici anni, è entrata nella stanza. “Che cos’è un museo per te Alessandra?”Ci pensa un attimo e poi sicura di accingersi a dare la risposta giusta mi dice: “Un luogo in cui sono esposti oggetti antichi che gli archeologi hanno ritrovato”. La menzione degli archeologi, lo so bene, è un’aggiunta dedicata a me, da cui di archeologia ha sentito parlare sin troppo. Sì perché a molti poco importa che dietro gli oggetti si nasconda il lavoro paziente e certosino degli archeologi; il reperto in sé è forse molto più importante dell’uomo che un tempo ne ha fatto uso e di quello che molti anni dopo l’ha ritrovato e ha provato a riscriverne la storia. I nostri musei sono assai spesso luoghi di adorazione di idoli a forma di quadri, statue, vasi, monete e molto altro ancora. A noi visitatori viene chiesto soltanto di pagare un biglietto per guardare e nient’altro, restare a bocca aperta di fronte ad una tela o sgranare gli occhi davanti ad una statua di bronzo, lasciarsi travolgere da una bellezza di cui spesso non capiamo il senso né a cosa possa servirci nella nostra vita quotidiana. E la cosa assurda è che spesso non c’è nessuno o non vi sono strumenti a disposizione che possano aiutarci a tradurre i segni di una lingua antica o diversa dalla nostra, proprio come quando si legge un testo in una lingua straniera senza capire una sola parola di quello che c’è scritto.
Ovviamente non tutti i musei sono così difficili da interpretare, ce ne sono di straordinari e assolutamente imperdibili, ma molti di essi assomigliano a dei grandi contenitori di oggetti inanimati che sembrano quasi elemosinarci un po’ di attenzione, uno sguardo veloce, un pensiero distratto, qualsiasi cosa li faccia sentire per pochi attimi ancora vivi e utili.
E se vi dicessi che esistono musei senza oggetti in cui non transitare con gli occhi ma soffermarsi con la mente mi credereste? Neanch’io fino a poco tempo fa. Poi mi sono ricreduta perché ho letto che in Sardegna, in un piccolo paese vicino Sassari, a Sorso, c’è un museo dove non ci sono reperti da osservare, ma solo pannelli da leggere e foto e disegni da osservare e poi sensazioni da esplorare e suoni da cui lasciarsi condurre. È un museo molto particolare, a partire dal nome Biddas, che in sardo vuol dire “paese” e precisamente questo piccolo museo è dedicato ai paesi che non ci sono più, che sono stati abbandonati nei secoli passati, per tante ragioni: perché c’è stata una frana o a causa di un’epidemia o semplicemente perché ad un certo punto gli abitanti hanno deciso di trasferirsi in città più grandi e ricche per cercare fortuna.
C’è una ragione precisa per cui si è deciso di aprire un museo del genere proprio in Sardegna; perché gli archeologi sanno bene che in quest’isola ci sono decine di villaggi che nel Medioevo sono stati abbandonati e le cui tracce, sepolte nel sottosuolo, potrebbero da un momento all’altro scomparire se si decidesse di sacrificarle per far posto a costruzioni moderne. E poi perché proprio a Sorso uno di questi villaggi, Geridu, è stato scavato, per cui gli archeologi non ne conoscono solo gli oggetti ritrovati, ma sanno anche come erano fatte le case, come si viveva, dove si preparava il pane o com’era fatta l’osteria. Sì perché gli oggetti da soli non valgono a nulla se non si è in grado di interrogarli e collocarli nello spazio e nel tempo. E così un piatto può ad esempio aiutarci a capire come veniva un tempo modellata l’argilla al tornio, a che temperatura era cotta nel forno, se era decorato e quindi destinato alla tavola di qualche ricco signore oppure no, quando è stato gettato via e perché, e via dicendo.
Nel museo di Biddas gli oggetti non vi sono, se non in copie, perché i veri protagonisti sono i villaggi e le persone che li hanno abitati e di cui sono persino ricordati i nomi. Ciò che si vuole offrire al visitatore, adulto o piccolo che sia, non è tanto il ricordo di un oggetto nella vetrina ma un pezzetto di storia da custodire e su cui riflettere, l’invito a pensare che ovunque in Italia e non solo, in Sardegna e in altre regioni, ci sono paesi che per mille ragioni diverse rischiano di scomparire e di essere dimenticati. C’è un modo per impedire che questo accada? Forse no o forse sì. Ma è bello sapere che qualcuno ha pensato di costruire uno spazio su misura per racchiudere tutte le domande e riflessioni sinora fatte e accoglierne altre, un luogo della memoria in cui imparare a ricordare e soffermarsi a pensare sul nostro essere abitanti di città e paesi in continua evoluzione.
Quello di Biddas è un “museo per tutti” e quindi anche e soprattutto per i bambini. E anche qui una novità importante: il percorso di visita che si offre ai più piccoli è lo stesso degli adulti, solo arricchito di strumenti e linguaggi adatti a loro. All’ingresso del museo ad attenderli c’è Gianuario, un bambino immaginario abitante del villaggio di Geridu, che li accompagnerà di sala in sala e con ingenuità e semplicità racconterà loro la storia del suo paese e della sua famiglia.
La visita al museo di Biddas è per adulti e bambini un’esperienza che coinvolge tutti i sensi, dove potersi sentire liberi di toccare e che offre, attraverso i pavimenti delle sale che riproducono strade polverose, piani in legno o terra battuta o le ricostruzioni delle case crollate o abitate, la possibilità di sentirsi protagonisti di un viaggio unico, trascinati dalla storia in mezzo alla gente e per un attimo compagni delle gioie e fatiche delle loro vite. E l’attenzione particolare ai bambini è dimostrata anche dalla ricca offerta didattica loro dedicata, percorsi di visita a tema e attività varie per sperimentare il lavoro di scavo e ricerca dell’archeologo come anche conoscere un po’ meglio la storia dei propri antenati.
Sulla pagina facebook del museo ci sono tante foto che offrono un’idea di quello che il museo offre e della serenità con cui i bambini vivono gli spazi del museo ed è forse proprio la mancanza degli oggetti ad annullare le distanze e a favorire la libera esplorazione. Ce n’è una in particolare che trovo assai evocativa: una nonna con la sua nipotina di pochi anni che guarda con grande attenzione Guanuario che a sua volta ascolta divertito le parole di suo nonno. Quattro generazioni in una sola immagine, il passato, il presente e il futuro che si danno appuntamento in un museo, come vecchi amici che non si vedono da tempo e hanno tante di quelle storie da raccontarsi da poterlo fare solo in uno spazio dove non c’è fretta.
Ecco, se io adesso vi chiedessi di nuovo cos’è per voi un museo, sareste ancora sicuri di cosa rispondermi?
Mi chiamo Giovanna e vivo in Puglia. Ho sempre avuto le idee molto chiare: a 8 anni sapevo già che avrei fatto l’archeologa. Per anni mi sono divisa tra gli scavi e montagne di mattoni, tegole e coppi. Chissà, forse sono fatta un po’ di argilla…
Poi, ho capito che dovevo raccontare l’archeologia ai bambini e dare un senso, una prospettiva al mio lavoro. E allora ho scoperto una cosa fondamentale: le storie sono l’unica cosa che ci lega al passato e al futuro e che nessuno potrà mai portarci via.
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