Moltissimi anni fa, quando ero una bambina piccolissima – prima che a 8 anni una visita ad un museo archeologico mi folgorasse irrimediabilmente – sognavo di diventare da grande una dottoressa. Avrei guarito i miei genitori e le mie sorelle quando fossero diventati molto vecchi e i primi acciacchi fossero comparsi e poi, certo, tutti quelli che avessero avuto bisogno di essere curati.
La cura, l’essere utile a qualcuno, darsi un senso e attribuirlo soprattutto alle cose che si fanno. Sono concetti che, anche se poi le cose sono andate diversamente, ho sempre creduto dovessi tener ben presenti nella mia professione oltre che nella mia vita.
Col tempo, crescendo e misurandomi con la mia idiosincrasia per gli ospedali e con la malattia degli altri, ho capito che sarei stata un pessimo medico, del tutto incapace di frapporre quella distanza necessaria quando ci si trova ad aver a che fare con casi clinici complicati e che salva dal rischio di un coinvolgimento emotivo che tolga lucidità e prontezza all’azione.
Poi, qualche giorno fa, ho indossato un camice, una mascherina, dei copriscarpe e sono entrata – da archeologa e non da medico – in un reparto di oncologia pediatrica. Ci si sente sempre a disagio quando ci si scontra con la malattia: da una parte chi soffre e combatte e dall’altra chi assiste, consola e spera che tutto finisca presto e sia solo un brutto ricordo.
“Che cosa ci faccio qui?”, mi sono chiesta. “Davvero sono stata così sciocca da pensare che la mia archeologia potesse alleviare il dolore dell’attesa di chi non ha scelto di essere in questo posto?”
È cominciato tutto per caso. Qualche anno fa ho scoperto che in Francia un gruppo di archeologi aveva costituito nel 2010 un’associazione, chiamata Bonne Pioche ovvero ‘Buon piccone’, nata con lo scopo preciso di portare l’archeologia in quei contesti dove i bambini sono generalmente esclusi dalle animazioni scientifiche: i reparti pediatrici, i quartieri disagiati.
In un guest-post scritto per questo blog, gli archeologi di Bonne Pioche ci hanno spiegato che il valore del progetto sta nel suo principale obiettivo, che è quello della trasmissione. Il sapere non può e non deve restare appannaggio esclusivo di chi lo detiene, ma deve circolare, scavare solchi nella mente di chi ne fruisce, mettere in discussione le certezze preconfezionate, offrire qualcosa alla collettività.
Diversamente, la conoscenza è sterile e fine a se stessa. Un inutile esercizio di autocompiacimento – condiviso con pochi simili – che tiene lontani coloro che non sanno, escludendoli a priori dai potenziali benefici che l’apprendimento potrebbe avere sulla qualità della loro vita.
L’occasione di ripetere, sia pure in piccolo, quell’esperienza francese qui, in Italia, nei luoghi in cui vivo, è arrivata grazie ad un’associazione di volontariato, Libri su Misura, e all’intelligenza della sua presidente. Da circa dieci anni i volontari dell’associazione si preoccupano di rendere più sopportabile il tempo della degenza in ospedale sia per i piccoli pazienti sia per i loro famigliari. Il ricovero in ospedale è di fatto un periodo di tempo strappato alle occupazioni quotidiane: la scuola, il gioco, gli amici per i bambini e il lavoro, il resto della famiglia per gli adulti. È, per così dire, un tempo infecondo in cui, rinchiusi tra le pareti di un ospedale, si mette in stand-by la propria vita fino a data da destinarsi. La guarigione è più urgente di tutto il resto, persino della vita stessa.
All’interno del reparto di oncologia pediatrica del Policlinico di Bari, come anche di altri ospedali cittadini, l’associazione Libri su misura ha messo su, grazie alle donazioni di enti, case editrici e singole persone, una piccola biblioteca di albi e libri per bambini e ragazzi.
Lì dentro, i bambini non possono arrivarci ma i libri possono essere portati nelle loro stanze, letti ad alta voce e trasformarsi per qualche ora in strumenti capaci di trasportare la loro fantasia in un altro mondo: quello delle storie.
Ed è qui che arrivo io con la mia archeologia, quella a misura di bambino. Perché non pensare che si possa fare divulgazione scientifica anche tra i bambini ricoverati in un ospedale? Perché non elaborare forme, magari più meditate e meno improvvisate delle mie, di mediazione scientifica in situazioni estreme di emarginazione sociale?
La terra, per esempio, o la sabbia, materiali che di solito si usano per i laboratori di scavo simulato, non possono essere introdotti in un reparto ospedaliero. E allora mi è venuto in mente che potevo sostituire la terra con del polistirolo colorato. Dentro gli oggetti si mimetizzano alla perfezione ed è più difficile scovarli.
La prima volta che sono entrata, da archeologa, in un ospedale è stata nel reperto di ortopedia pediatrica del Giovanni XXIII di Bari. Ad attutire il mio imbarazzo iniziale e allontanare le mie perplessità, è arrivata A., una ragazzina di 11 anni, vispa e con occhi intelligentissimi, che mi ha chiesto come avessi fatto a scrivere un libro di archeologia per ragazzi.
Ma scrivi con la penna o al pc? In un solo giorno o in più giorni? E il titolo quando l’hai deciso? E le illustrazioni le hai fatte tu? Ma quando poi ho finito di scrivere il mio libro, dove lo porto? In cartoleria?
Parlare di come nasce un libro e di che cos’è una stratigrafia, di quanto importante sia conoscere la storia dei luoghi in cui si vive e condividerla con il maggior numero di persone possibili, ricordare lo scempio di un sito come Faragola e chiedersi quale ingranaggio è saltato nella trasmissione della conoscenza perché ciò potesse accadere. Tutto questo è avvenuto – e mi sembra ancor più strano ma straordinario ora che ne scrivo – in un ospedale, seduta in cerchio con delle bambine in pigiama e pantofole, un ragazzo ancorato all’asta della sua flebo, gli studenti di una classe di liceo impegnati in un progetto di alternanza scuola-lavoro.
Davvero possiamo essere così ottusi da chiudere tutto quello che sappiamo in una lezione universitaria, in un articolo o tra le quattro mura di una sala di convegno e pretendere che questo basti per dire di aver fatto bene il nostro dovere? Davvero possiamo far finta che il diritto alla conoscenza e alla scienza dei bambini, dei ragazzi, della gente comune non sia affar nostro? Non dovremmo piuttosto adoperarci, in tutti i modi possibili, affinché quel diritto venga soddisfatto?
La seconda volta che sono entrata, da archeologa, in un reparto pediatrico, le mie perplessità e reticenze non mi avevano abbandonato ma mi avevano condotto fin lì, fino a quella porta che separa i sani dai malati, il mondo di fuori da quello di dentro.
La sensazione iniziale è stata quella di aver fatto un’irruzione non richiesta nello spazio ovattato dell’attesa altrui, quella dei malati, attaccati alle flebo e alle macchine, e quella dei genitori, amorevolmente al fianco dei proprio figli.
“Cosa possono fare la mia stratigrafia colorata, i miei libri, i miei disegni di cantieri e reperti contro la sofferenza della malattia?”. Per la prima volta, da quando mi ritrovo a discorrere di archeologia e dintorni in mezzo ai bambini o a comuni cittadini, le parole mi si sono seccate in gola e inceppate nella lingua. Non so cosa abbia detto, di sicuro è stata la mia peggiore conversazione a tema archeologico. Difficile parlare di recupero della memoria, di storie scavate e riscritte, di ricordi collettivi custoditi nei musei quando hai davanti i volti di storie umane che si sono come incagliate nella trama di un destino ingiusto.
Ancora una volta è stata una bambina a salvarmi, a restituirmi il senso di quello che stavo provando a fare. Ad A., 8 anni, la mia cassetta di polistirolo colorato è piaciuta un sacco.
Ci ha affondato la cazzuola e le mani, ha seguito il rumore della lama per recuperare i finti reperti, mi ha chiesto cosa fosse la ceramica e a cosa servissero i mattoncini, ha osservato in silenzio i disegni e si è soffermata sui dettagli, mi ha lasciata parlare e leggere senza mai staccarmi gli occhi di dosso. Gli occhi. Quando non puoi vedere le labbra che si muovono, sono gli occhi al di sopra della mascherina a catalizzare l’attenzione, a raccontare qualcosa di te.
Quale può essere, allora, il senso dell’archeologia in un reparto pediatrico? Credo che tutti i bambini e le bambine, a prescindere dalle situazioni anche contingenti come quelle ospedaliere in cui si ritrovano a vivere, abbiano diritto all’istruzione, e dunque anche alla corretta conoscenza storico-archeologica. Probabilmente una lezione di archeologia o un laboratorio di scavo o altro sono soltanto dei palliativi o forse sono delle occasioni per non sentirsi esclusi, diversi, emarginati dal mondo dei bambini fuori dall’ospedale.
Ogni professionista trova il suo modo personalissimo e unico di fare il mestiere che ha scelto e di essere l’uomo o la donna che ha scelto di essere.
Per me essere archeologa vuol dire mettere in cerchio quel poco che so e farlo soprattutto con i bambini, vuol dire scavare nella mia e un po’ anche nelle storie degli altri. Capire cosa ci divide e cosa ci unisce, rintracciare le radici da cui siamo nati, interrogarci sul presente con un occhio rivolto al passato ed uno al futuro, vuol dire costruire pezzo pezzo un’identità che ci assomigli e specchiarci l’uno nell’altra per riconoscerci come simili.
Mi chiamo Giovanna e vivo in Puglia. Ho sempre avuto le idee molto chiare: a 8 anni sapevo già che avrei fatto l’archeologa. Per anni mi sono divisa tra gli scavi e montagne di mattoni, tegole e coppi. Chissà, forse sono fatta un po’ di argilla…
Poi, ho capito che dovevo raccontare l’archeologia ai bambini e dare un senso, una prospettiva al mio lavoro. E allora ho scoperto una cosa fondamentale: le storie sono l’unica cosa che ci lega al passato e al futuro e che nessuno potrà mai portarci via.
Grazie. Sei una persona illuminata ed illumini a tua volta. Una piccola precisazione. La Biblioteca Le Quattro Stagioni di Libri su Misura è in rete grazie alla Teca del Mediterraneo (Opac Terra di Foggia) e a persone illuminate come te Silvia Barile e Maria Abenante. Grazie ancora. Marina Liberti
Grazie per la doverosa precisazione Marina 😉
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