Siamo giunti all’epilogo della nostra storia a bivi. Se negli scorsi capitoli avete sempre scelto la giusta direzione a ogni incrocio, in questo post troverete i finali delle due storie sulla nostra spalla di anfora, quella narrata dallo schiavo Menofilo e quella dal punto di vista degli archeologi.
Tra le righe di queste storie ho cercato di far emergere come lavora un archeologo e cosa può ricostruire in modo verosimile il passato che studia. Come scritto nel post introduttivo sulle storie a bivi, l’archeologo è continuamente di fronte a dei bivi, è abituato a sbagliare strada e tornare indietro, ogni volta raffinando l’informazione con nuove tracce o semplicemente mettendo in un ordine diverso quelle che ha a disposizione.
Non vi annoio ancora e passiamo subito ai finali.
Alla prossima storia a bivi!
L’urto a terra era stato molto forte. Era riuscito appena in tempo a mettere le mani avanti per attutire la caduta. La testa gli girava e strane sensazioni gli si agitavano dentro: quell’anfora davanti a lui sembrava conoscerla da sempre. Come se fosse sempre stata sua. Forse era solo confuso per la botta, non poteva essere veramente così, l’anfora era stata cotta pochi giorni prima nella fornace.
Fatto sta che qualcosa spingeva Menofilo a non alzarsi e andarsene; invece di inveire per la caduta e tornare a fare quello che stava facendo, rimase per un po’ seduto a terra. Gli altri schiavi ridacchiavano e lo sbeffeggiavano per la sua sbadataggine ma lui non se ne curava. A loro avrebbe pensato dopo.
Da quando i suoi occhi avevano incrociato quel contenitore così insignificante ma allo stesso tempo così attrattivo solo un pensiero gli frullava in testa: non poteva lasciarlo lì e portarselo via non era così complicato. Era solo una delle tante anfore che producevano alla fornace e Antioco non si sarebbe di certo accorto se ne mancava una. Era un padrone pignolo ma non fino a quel punto.
Agguantò i manici e si lasciò alle spalle la fornace trasportando l’anfora con una certa difficoltà. Dopo aver deciso di tenerla, Menofilo volle suggellare questa decisione. Seduto in un angolo riservato della laguna, attorniato dalle zanzare e con il sole ormai nascosto dietro l’isola d’Elba, estrasse un chiodo che aveva preso alla fornace e iniziò a incidere e scalfire la superficie liscia del vaso, concentrato come un bambino alla prese con i primi compiti in classe. In fondo lui aveva imparato a scrivere molto tempo prima, e da quando era uno schiavo non aveva più tratteggiato una lettera. Il suo nome però se lo ricordava bene, lo stava scrivendo in lettere maiuscole, con il suo alfabeto, quello greco. Ben più difficile era realizzare incisioni precise.
Quando ebbe terminato ormai non c’era quasi più luce ma il suo nome sulla spalla dell’anfora era completo.
Da tempo voleva avere un oggetto tutto suo e quell’anfora su cui era inciampato aveva attirato subito la sua attenzione. L’avrebbe portata nella stanza dove viveva e l’avrebbe tenuta lì per metterci dentro cibo o altro. Nessuno avrebbe potuto metterci le mani, c’era il suo nome sopra, nessuno poteva ignorare fosse sua, nemmeno gli uomini del futuro. Quell’anfora gli avrebbe sempre ricordato quel momento in cui aveva deciso di restare, nonostante una vita piuttosto grama di soddisfazioni e un padrone avaro di complimenti. In quel momento non sapeva cosa avrebbe riservato il suo futuro ma sapeva che sarebbe rimasto indissolubilmente legato a Vignale. E non avrebbe mai immaginato per quanto tempo!
Michela tornò in laboratorio il pomeriggio successivo con la scanzonata leggerezza di chi, sapendo di aver svolto il suo dovere, è libero di impiegarre il suo tempo come meglio crede. Lei in quel momento voleva studiare meglio la spallla dell’anfora con il graffito: dalla sera precedente non aveva mai smesso di pensarci. Vincenzo cercò di fermarla: “Se sei qui vuol dire che l’esame è andato bene, ma sei sicura di non voler riposare?!”
“Il mio riposo è la libertà di studiare ciò che voglio e di sciogliere le redini della mia curiosità! L’esame è andato bene e ora cerchiamo di capire se su qualche possiamo trovare informazioni su questo Menofilo!”
Michela sapeva di non poter fare a meno di Vincenzo. Lei era alle prime armi e non sapeva molto bene come affrontare uno studio del genere. Vincenzo era più esperto di lei e meglio informato.
“Michela, intanto iniziamo a osservare attentamente l’anfora. Non abbiamo la certezza perché il manico non si è conservato ma direi che è un anfora Dressel 2/4, uno dei tipi più diffusi nell’epoca che ci interessa, il primo secolo d.C. A un’analisi preliminare dell’impasto dell’argilla mi sembra possa essere stata cotta nelle fornaci di Vignale, per cui direi che il nostro graffito non è stato inciso da Menofilo per qualche funzione commerciale. Probabilmente l’ha usata lui stesso, per fare cosa è difficile dirlo.”
“Potrebbe voler dire qualcosa il fatto che ha scritto in maiuscolo?”
“Molto brava! In effetti di solito in età romana quando si scriveva il proprio nome su un oggetto per segnalare che lo si possedeva, si scriveva in corsivo. E’ molto strano sia in maiuscolo, fa pensare che possa trattarsi di un graffito con funzione funeraria, con l’anfora a segnalare il luogo e il nome del defunto. Anche perché la superficie dell’oggetto è molto liscia, come se fosse stata usata molto poco.”
“No, speriamo di no, anche perché significherebbe che il graffito non è stato realizzato dallo stesso Menofilo. E io che pensavo di poter arrivare a ricostruire la sua storia, un po’ come per Antioco.”
“Beh, sai benissimo che per Antioco conosciamo prenome, nome e cognome, mentre qui con un solo elemento del nome diventa impossibile. E’ come se trovassi scritto Andrea su un quaderno, quanti Andrea ci sono nel mondo? Non riuscirai mai a ricostruire la sua vera storia, puoi pensare quale possa essere stata una sua storia verosimile, ed è già raro che tu riesca a vedere la vita di un uomo sull’oggetto che hai trovato, anche se solo con il suo nome. Riesce già a farti sentire il passato più vicino, che dici?”
“Sicuramente, anche se ancora un po’ sfuggente. Magari potrebbero uscire altre tracce di Menofilo dai prossimi scavi, e allora chissà…. Forse saremo in grado di ricostruire un altro pezzo della sua storia.”
“Mai porre un limite al caso. Hai ragione, però per il momento ci dobbiamo fermare qui.”
Mentre tornava a casa, se da un lato Michela si sentiva piuttosto delusa per avere un quadro molto parziale della storia di Menofilo, dall’altro non poteva che ammettere il fascino che un tipo di studio e di ricerca come quella archeologica portava con sé. Sudarsi sullo scavo le singole informazioni, costruire attraverso di esse ipotesi, riscrivere le storie ogni volta che un elemento nuovo emergeva dalla terra o da altri studi. Un’infinita complessità da raccontare e da vivere in prima persona. Menofilo era solo un tassello di quel grande mondo, in cui si era da poco affacciata e che non vedeva l’ora di esplorare.
C’era una volta un bambino di nome Francesco che, dopo aver trascorso infanzia e adolescenza visitando siti greci e romani nel Mediterraneo, sa che diventerà archeologo. Si iscrive all’università di Siena convinto di studiare le antichità classiche ma ben presto capisce non c’è cosa più bella di condividere e vivere l’archeologia e le sue storie con tutti, bambini compresi. E continua a farlo anche dopo aver terminato il suo dottorato in archeologia pubblica.
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