Immaginate di essere catapultati indietro nel tempo fino al I secolo d.C. Siete a Pompei e camminate a passi lenti, sotto il sole di mezzogiorno e con lo stomaco che brontola, lungo via dell’Abbondanza, una delle strade cittadine principali. Matrone, schiavi, ancelle, mercanti, animali, bambini. C’è un viavai continuo lungo questa strada su cui si affacciano alcuni dei principali edifici pompeiani.
Vista l’ora, molti avventori sono ammassati attorno ai banconi in muratura dei thermopolia, locali dove è possibile consumare un pasto veloce e in piedi fuori casa, l’equivalente dello street food odierno. I grossi contenitori in terracotta (dolia) incassati nel bancone contengono carne fredda, pesce, legumi, uova e naturalmente il vino, spesso addolcito con il miele (mulsum), per accompagnare il cibo.
Uno di questi thermopolia è gestito da una donna, Asellina, e da alcune schiave, i cui nomi – Egle, Maria e Smyrine – tradiscono le origini straniere. Come tante altre donne nella stessa condizione, sono giunte a Pompei dagli angoli più remoti dell’Impero e qui si guadagnano di che vivere servendo pietanze ai tavoli delle osterie o intrattenendo i clienti più esigenti nelle stanze al piano superiore.
Asellina non è un personaggio inventato ma una donna realmente esistita e altrettanto reale – e tuttora visitabile – è la sua osteria, sepolta dalla cenere del Vesuvio nel 79 d.C. e ritrovata pressoché intatta nel corso degli scavi archeologici. Anfore, lucerne e persino l’incasso della giornata, 683 sesterzi, erano perfettamente lì dove erano stati lasciati al momento dell’eruzione, nel trambusto e fuggi fuggi generale che ne era seguito.
La storia di Asellina è al centro del romanzo per ragazzi di Rosa Tiziana Bruno La locanda di Asellina. Vita, misteri e cucina nell’antica Pompei, pubblicato dalla casa editrice La Medusa. Un libro, che mescolando sapientemente fantasia e realtà storica, restituisce al lettore un’immagine nitida, particolareggiata e intima della vita famigliare e sociale in un’antica città romana.
Quello di Asellina è un personaggio sfaccettato e di una modernità sorprendente. Vedova e madre di tre figli, è una donna forte e indipendente, che non accetta imposizioni da nessuno e che pur potendo contare su una discreta fortuna lasciatele in eredità dal marito, è più che mai decisa a gestire in prima persona la locanda di famiglia. Le sue giornate, che cominciano all’alba e terminano col buio, sono scandite dai tempi del lavoro e della cura amorevole dei propri figli per i quali, come tutte le madri, desidera il meglio.
Asellina sognava per i suoi ragazzi la felicità, ma sapeva che la cosa più importante era impegnarsi per cambiare le cose, dove possibile. Perché i sogni sono una felicità da costruire.
La trama del romanzo ruota attorno ad un giallo su cui la stessa Asellina e i suoi figli, Marcus in particolare, si ritrovano ad indagare mossi da una misto di curiosità e apprensione.
Da qualche giorno tra le schiave dell’osteria circolano delle strane monete d’oro e di bronzo marchiate di rosso e i mormorii, gli sguardi furtivi e i comportamenti sospetti di altre schiave in città inducono a ritenere che stiano tramando qualcosa. In un crescendo progressivo si scopre poi che quello in atto è un vero e proprio complotto ordito dalle schiave per esclusivo desiderio di libertà e che persino una sacerdotessa, moglie di un console, è messa sotto ricatto per aver consentito ad un patrizio di partecipare travestito da donna ai festeggiamenti della Bona Dea, la divinità della pastorizia e della fecondità.
La situazione potrebbe pericolosamente degenerare se l’imperatore in persona venisse a sapere della cospirazione in corso, ma Asellina riesce ad evitare che ciò accada grazie ad una cena speciale, in cui cibi e sentimenti, serviti in egual misura, sortiscono un effetto pacificatore sulle commensali, matrone e schiave riunite per l’occasione.
Il misfatto è in realtà solo un pretesto narrativo per meglio focalizzare l’attenzione del lettore sulla cornice storica, sociale e famigliare che fa da sfondo al succedersi degli eventi e la cui accurata ricostruzione nulla toglie alla forza accattivante della storia, semmai ne accresce l’attendibilità.
Ma l’aspetto forse più curioso di tutto il libro è l’attenzione costante al cibo e alle consuetudini alimentari dei cittadini romani, alla descrizione delle quali è dedicata un’appendice a fine libro che raccoglie anche alcune ricette tipiche.
In fondo, oggi come ieri la nostra routine quotidiana è tutta organizzata attorno ai momenti dei pasti, il cui consumo – solitario, affrettato, lento, partecipato – è un po’ la cartina di tornasole del nostro rapporto con il cibo e con la capacità che abbiamo di nutrire il corpo con alimenti che soddisfino il piacere oltre che l’esigenza di mantenimento.
Certo, i Romani amavano i sapori forti e decisi come quello del garum, una salsa ricercatissima a base di pesce, o del moretum, il formaggio preparato con l’aglio, sapori che oggi a stento riusciremmo a tollerare. Ma addentrarsi nella conoscenza di un popolo e indagarne le abitudini vuol dire anche intrufolarsi nelle cucine, riempirsi le narici di odori, sbirciare sotto i coperchi delle pentole, guardare cosa c’è in dispensa, ammirare la gestualità che accompagna la preparazione di un piatto, riempirsi la bocca e sentire il gusto.
Sandro Romano, gastronomo e giornalista, a tal proposito scrive:
La massima “Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei” qui risulta particolarmente azzeccata.
Far conoscere la storia ai bambini, per quanto possibile farli innamorare della memoria antica impressa nei basoli, nei muri, negli affreschi di una città-monumento a cielo aperto, implica la capacità di riuscire a far loro percepire la vita un tempo vissuta in quel contesto. E in questo processo di restituzione del quotidiano antico, più che i dettagli tecnici o le puntualizzazioni cronologiche o la sequenza dei fatti storici, conta l’abilità nell’immaginare storie in cui ciascuno possa sentirsi protagonista più che spettatore, lettore attivo più che destinatario passivo di pagine scritte.
Spesso questa capacità di affabulazione manca in chi come lo storico o l’archeologo studia la Storia per professione. Non è un difetto, ma soprattutto non è un limite invalicabile. Per andare oltre serve quell’attitudine a liberarsi dalla schiavitù del dato storico e affidarsi alla forza creativa delle parole che quanti scrivono per mestiere, invece, ben possiedono.
Questo romanzo non è dunque, secondo il mio punto di vista particolare, solo una storia ben scritta e assai piacevole per lettori bambini e adulti, ma mostra ben chiara la direzione che una narrazione storico-archeologica fatta da specialisti per il grande pubblico dovrebbe provare a seguire.
Per il resto, a fine lettura viene una gran voglia di ritrovarsi davanti al bancone della locanda di Asellina a Pompei, con una focaccia in una mano e nell’altra un bicchiere di vino.
La locanda di Asellina. Vita, misteri e cucina nell'antica Pompei
Miglior libro italiano nella categoria “Children book”
del Gourmand World Awards 2018
Premio Selezione Bancarellino 2018
Immaginiamo di essere padroni del tempo e di poterlo percorrere a ritroso fino a trovarci nell'Impero romano. Alle falde del Vesuvio, nella città di Pompei, incontriamo una madre che indaga su fatti misteriosi insieme ai suoi figlioli. Si tratta di Asellina, donna realmente esistita e che gestiva una locanda in città. Insieme a lei intraprendiamo un viaggio alla scoperta di emozioni, speranze, giochi, abitudini della Pompei antica, attingendo ai dettagli storici autentici. Seguendo la scia degli aromi della sua cucina, ci immergiamo in un passato che sorprende per la sua straordinaria attualità. La trama ha i toni del giallo, ma è anche un percorso culinario. Le ricette di Asellina legano tra loro gli episodi avvincenti, fino alla fine. Sono ricette ricostruite fedelmente, gustose e facili da preparare ancora oggi. Questo romanzo è per i ragazzi, ma in realtà sorprende e incuriosisce tutti, rivelando le innumerevoli analogie che ci legano ai nostri predecessori e che anticipano un pezzetto del nostro futuro. Un tuffo avventuroso nella Storia per scoprire che non è una disciplina sterile, ma il meraviglioso racconto del fluire della vita.
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Mi chiamo Giovanna e vivo in Puglia. Ho sempre avuto le idee molto chiare: a 8 anni sapevo già che avrei fatto l’archeologa. Per anni mi sono divisa tra gli scavi e montagne di mattoni, tegole e coppi. Chissà, forse sono fatta un po’ di argilla…
Poi, ho capito che dovevo raccontare l’archeologia ai bambini e dare un senso, una prospettiva al mio lavoro. E allora ho scoperto una cosa fondamentale: le storie sono l’unica cosa che ci lega al passato e al futuro e che nessuno potrà mai portarci via.
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